La petizione di un comitato di mamme e papà su Change.org per abolire gli odiati compiti a casa ha già raccolto 21.000 firme. L’ultima occupazione in un liceo dei Parioli a Roma è finita in tragicommedia: madri e padri sono andati a riprendersi i figli a schiaffi.

A Milano e Bologna girano circolari dei dirigenti scolastici per chiudere i gruppi WhatsApp di classe dove nascono processi sommari contro i prof. E per finire, la lettera di un docente al Corriere della Sera ha denunciato che le scuole cadono a pezzi fuori, ma dentro è ancora peggio: studenti svogliati che filmano gli insegnanti a lezione, genitori imbufaliti se arriva una nota o un rimprovero.

Ma cosa è successo nelle aule italiane? Il rapporto di fiducia tra genitori e insegnanti sembra essersi spezzato, senza distinzione geografica e di livello di istruzione. Dal Nord al Sud, dall’asilo nido (dove iniziano le prime animate chat delle mamme) all’università (dove gli open day sono affollati di parenti ansiosi per il futuro dei figli), la collaborazione casa-scuola rimane spesso una realtà scritta solo sulla carta e quotidianamente disattesa. Come si è arrivati fino a qui? L’abbiamo chiesto a 4 esperti.

«La scuola fatica ad adeguarsi alle famiglie 2.0»

Annella Bartolomeo, docente di Psicologia relazionale alla Cattolica di Milano. «Nel corso di una generazione le famiglie sono passate dal modello normativo e autoritario a uno “emozionale”. Oggi tendiamo a proteggere di più i nostri figli e ad ascoltare le loro esigenze, ma mettiamo in secondo piano norme e regole severe, che i docenti invece esigono perché utili alla crescita e all’educazione. Inoltre, tra scuola e famiglia c’è un divario anche tecnologico. I ragazzi a casa sono immersi in una realtà 2.0 nella quale apprendono facilmente. In classe, invece, sono formati e valutati con metodi classici: i genitori pensano che con una didattica moderna i figli renderebbero di più e “incolpano” i docenti di essere poco innovativi e stimolanti. La stessa tecnologia ha poi permesso a madri e padri di fare gruppo più che in passato e di coalizzarsi su WhatsApp, dove l’immediatezza esaspera l’emotività. Il gap e i conflitti si potrebbero superare studiando forme di partecipazione più attiva dei genitori alla didattica».

«I prof si sentono delegittimati e demotivati»

Alex Corlazzoli, docente di scuola primaria, autore di Tutti in classe (Einaudi). «I genitori che discutono dei voti dei figli ci sono sempre stati. È la scuola a essere cambiata: le riforme che si sono succedute hanno alimentato il clima di sfiducia, la didattica è diventata una macchina che sforna voti e verifiche, oggettivizza tutto, è meno attenta alle diversità. Questo ha messo i genitori sulla difensiva: temono di essere tagliati fuori, bussano alla porta e ogni tanto la sfondano. Con il risultato che gli insegnanti si sentono delegittimati e impauriti, spesso anche demotivati perché crescono le responsabilità e il carico di lavoro ma non lo stipendio. E non fanno gruppo o massa critica per rivendicare il loro ruolo: sono isolati, come paralizzati. Dovrebbero tornare a essere protagonisti e riaffermare la loro autorevolezza. Per esempio, invitando i genitori in aula durante le lezioni a condividere il loro progetto, mandando newsletter che raccontino la vita di classe, usando le chat e i social per stimolare la comunicazione positiva. È così che si ricrea la “comunità scolastica” dei grandi maestri, da Mario Lodi a Maria Montessori».

«I genitori sono diventati gli avvocati dei figli»

Benedetta Tobagi, scrittrice, ha pubblicato di recente La scuola salvata dai bambini (Rizzoli). «Per il mio libro ho visitato tantissime scuole da Nord a Sud e ho notato spesso una tensione: mamma e papà trasferiscono la pressione sociale sui figli, stanno loro addosso per proteggerli, li seguono passo passo cercando di prevenire errori e frustrazioni. Diventano i loro avvocati davanti a una nota o un brutto voto. A questo si aggiunge il fatto che gli insegnanti oggi non sono considerati autorevoli: abbiamo tutti un livello di istruzione più alto, quindi maggiore spirito critico, e ci sentiamo in grado di mettere in discussione il loro lavoro. Nelle zone ad alta densità di immigrazione il rapporto genitori-insegnanti è molto più sereno, perché lì ci sono famiglie di stampo tradizionale, dove esiste ancora una simmetria precisa tra adulti e bambini, non si è persa la capacità di dire “no”, di mettere i figli davanti alle difficoltà e di abituarli al sacrificio. Queste famiglie vedono la scuola come un’istituzione e, come tale, la rispettano».

«Non c’è collaborazione: le riunioni sono vuote»

Gigi De Palo, presidente del Forum delle associazioni familiari. «La scuola è diventata un ente dove si fa formazione, non più educazione. Gli insegnanti spesso preferiscono riempire i ragazzi di contenuti per poi valutarli. I genitori, oggi più presenti nella vita dei figli, non ci stanno: vogliono essere informati su metodi e didattica, capire se i docenti sono davvero preparati, partecipare allo studio dei loro figli. A casa li seguono nei compiti come un secondo lavoro, e se i risultati sono scarsi chiedono alla scuola il perché. Ma intromissioni o critiche spesso sono respinte come ingerenza e invasione di campo. La partecipazione ai patti scuola-famiglia è una pura formalità, si limita a poche assemblee l’anno dove tutto è già deciso prima della riunione. I genitori non hanno più l’immagine di una scuola come “comunità educante” della quale far parte. Le elezioni dei rappresentanti sono sempre deserte, invece è la sede per riappropriarsi del ruolo di co-educatori. Mettendosi in gioco in prima persona nei consigli di classe e di istituto».