Meglio un cinque o una bella “D”? Tra qualche mese vostro figlio potrebbe tornare a casa con la verifica con scritto “A-B-C–D o E” al posto dei numeri in decimi. Da qualche settimana i parlamentari stanno discutendo proprio su questo.
I numeri sono più chiari, le lettere meno punitive
Il dibattito è nato in fase di elaborazione di uno dei disegni di Legge delega previsti dalla Legge 107, la cosiddetta “Buona Scuola”. Ora siamo al rush finale: in questi giorni il Parlamento dovrà esprimere il proprio parere a seguito delle audizioni fatte dalla Commissione istruzione e poi il Governo deciderà. Da una parte ci sono i parlamentari come la senatrice Francesca Puglisi che sono convinti che le lettere permettano di uscire dalla logica della scuola calcolatrice dove alla fine in pagella va la “media” dei voti presi durante l’anno. D’altro canto c’è chi ritiene che un sei o un dieci siano più chiari, netti e comunichino meglio alla famiglia ma anche al bambino le lacune o i buoni risultati.
In Italia a reintrodurre la valutazione numerica alla scuola primaria e secondaria di primo grado era stata la riforma della ministra Maria Stella Gelmini. Fino ad oggi è andata così, ma i sostenitori del nuovo sistema sostengono che il voto in lettere esprima meglio il concetto di evoluzione delle competenze e delle conoscenze. Secondo loro un “4” resta tale quando si fa la media mentre una “E” dovrebbe solo essere un monito e non può far “media”. Il problema è un altro: come si valuta oggi? E poi, è davvero necessario dare i voti alla scuola primaria e alla media? A chi devono servire?
Il voto non dovrebbe creare concorrenza
Dare i voti in numeri o in lettere non cambia nulla. Alla fine dell’anno la maestra o la professoressa che ragiona guardando solo a quante domande l’alunno ha risposto correttamente nella verifica, sarà pronta a fare la “somma” delle “E” o delle “C”. Chi fa il maestro sa che la valutazione non deve mortificare il bambino e non deve nemmeno creare una sorta di “schiavismo” del voto tra i più bravi. Il voto, in lettere o in numeri, crea una concorrenza per nulla necessaria a quell’età dove deve prevalere la cooperazione, lo stare insieme per un fine comune che non è andare a scuola per il voto ma per il piacere di apprendere.
La differnza la fa l’insegnante, non il voto
Nessuno qui vuole eliminare il meccanismo di compensazione che fa parte di ognuno di noi e che si fa vivo anche tra i bambini ma la bravura dell’insegnante sta nel trovare la strategia per promuovere anche l’errore, per incentivare. Ho visto bambini che, dopo anni che ricevevano quattro, avevano smesso di studiare. Di fronte al maestro che non dà voti ma spronati anche a partire da un’unica parola detta durante una verifica orale, hanno iniziato a prendere in mano il libro con entusiasmo e sono arrivati a raggiungere risultati pari ad altri.
Basta rileggere le parole del maestro Antonio Manzi per capire: «Ho due bambini, uno fa il dettato senza errori, cosa gli devo dare in base alla vostra valutazione decimale? Ovviamente gli devo dare dieci. Un altro bambino fa trenta errori: che voto gli devo dare? Sottozero? Normalmente gli si dà quattro. Dopo quindici giorni, il primo, che non aveva fatto errori, fa due errori; gli do otto che è sempre un bel voto, però lui è andato avanti o è andato indietro? Il secondo bambino, che aveva fatto trenta errori, la seconda volta ne fa 22, ma secondo quel criterio il suo voto rimane sotto zero. Ora, a quello che ha preso otto non posso dirgli “Guarda che sei andato male”, mentre al bambino che è passato da trenta a 22 gli devo dire “Bravo”, ma in realtà non glielo posso dire perché in base al voto, lui rimane cretino. Ma io sono sicuro che se gli dico “Bravo!”, la volta successiva di errori ne farà quindici». È proprio così. Le parole di Manzi sono ancora attuali.