I primi giorni di settembre per alcuni studenti delle superiori segnano il rientro in Italia dopo il quarto anno all’estero. Per loro è previsto un colloquio che sonda, a grandi linee, quanto e se si sono rimessi in pari con la programmazione della scuola che tornano a frequentare, ma che permette soprattutto di raccontare cosa hanno imparato in sistemi di istruzione spesso lontanissimi dai nostri. Ascoltarli è un modo per misurare le distanze tra la nostra scuola, nobile edificio un po’ in disarmo, e il resto del mondo.
Cosa ne pensano i docenti italiani
La prima buona notizia è che un numero sempre più piccolo di insegnanti ostacola questo tipo di scelta, anche se qualche battuta ironica serpeggia (“In Irlanda hai studiato la storia della legislazione della pesca?”. Risatine… come se fuori dai patri confini non sembrasse eccessivo il tempo che dedichiamo alla spedizione dei Mille o alle scaramucce post-unitarie tra i nostri governi e i papi, ma del resto ognuno ha la propria identità e i propri campanilismi). Quasi sempre i ragazzi espatriati non interrompono drasticamente i contatti con la loro scuola di provenienza, ma con uno o più docenti tutor si scrivono periodicamente per informarli sulle loro attività nelle nuove scuole, sui loro progressi e per rimanere aggiornati su cosa eventualmente studiare in parallelo, anche perché questo è caldeggiato dalle linee guida del MIUR sulla “mobilità studentesca internazionale individuale”.
Come ci si organizza per partire
La seconda buona notizia è che, oltre alle agenzie che pianificano viaggio, scuola e soggiorno per un trimestre, un semestre o un anno, molte famiglie hanno imparato con successo a costruire autonomamente il percorso all’estero dei propri figli. I costi rimangono elevati (tramite agenzia circa 5000 euro per tre mesi in Europa, tra i dieci e i ventimila di euro per un anno negli Usa, in Canada o in Australia; con un’organizzazione fai da te invece i costi si abbassano notevolmente), ma esistono anche molte opportunità per ottenere borse di studio. Consigliate (per alcune scuole è un vincolo) una media del sette il terzo anno e la promozione senza debiti (in caso di sospensione del giudizio la scuola dovrebbe però definire le procedure per lo scrutinio senza aspettare le prove di settembre); è comunque in crescita ogni anno il numero dei ragazzi che partono.
Come si studia fuori dall’Italia
Tutti i ragazzi tornano rafforzati quanto a carattere e capacità di cavarsela e con orizzonti sul mondo dilatati, ma soprattutto in molti raccontano di avere sperimentato strade nuove per apprendere con efficacia. Nei paesi anglosassoni, negli Usa, in Australia, ma anche nel nord-Europa e nel sud est asiatico (mete impensabili fino a pochi anni fa) è prassi diversificare i livelli di apprendimento, permettere di scegliere le materie all’interno di classi che raramente superano le 20-25 unità, accorciare le vacanze estive e proporre pause più funzionali nel corso dell’anno. Inoltre nella maggior parte delle scuole all’estero la lezione frontale non è più considerata l’unico modo per insegnare: la metodologia debate (basata sul confronto dialettico) e le attività laboratoriali si sono fatte strada da anni. Molti gli essays scritti e pochissime le verifiche orali. Ma allora come si evita di disimparare a parlare? Ad esempio con la sollecitazione continua a intervenire durante le lezioni (ogni intervento è oggetto di microvalutazioni intermedie). Scegliere come e cosa studiare è una responsabilità che fuori dall’Italia si impara presto: Lucia a Dallas ha scelto il corso di anatomia perché lì l’apparato cardiocircolatorio si approfondisce sezionando a gruppi di tre ragazzi il cuore di un suino; Tommaso a Basilea si è iscritto a una laptop class perché in Italia aveva sempre lottato con penne, quaderni e appunti; Eleonora a Dublino ha fatto una work experience che per una settimana l’ha portata a conoscere il sistema economico e produttivo di una piccola azienda (uno stage di alternanza scuola lavoro opzionale e senza corteo di polemiche).
I risvolti umani
Se trovare la famiglia ospitante con cui instaurare un buon rapporto sembra lo scoglio di alcuni ragazzi (a volte capita di dover cambiare a metà del soggiorno all’estero), il comune denominatore di tutti racconti sono invece i rapporti corretti ma distesi con i professori (in un anno dimenticano cosa sia l’ansia) e con i compagni, che ovunque sono di nazionalità diverse, più varie e più integrate che da noi: forse l’idea di Europa tiene duro sui banchi di scuola e sulla buona pratica dell’interculturalità.