Lo ammetto: è capitato anche a me di urlare con i bambini. Rare sono state le volte in cui è accaduto. Mai in aula. Solo in momenti in cui i bambini erano in attività disorganizzate e pericolose come il dopo mensa. Ho urlato senza pensarci, senza ragionare sul perché Matteo o Marco stavano mettendosi in pericolo mettendo a loro volta a rischio il mio ruolo di maestro. Un attimo dopo mi sono chiesto: perché l’ho fatto? Perché ho alzato la voce? Cos’altro potevo fare? E soprattutto ora cosa penseranno di me?
Chissà se le maestre e i maestri che urlano di non urlare hanno mai riflettuto su questa frase. Ogni volta che sono entrato, ad esempio, in una mensa scolastica ho trovato insegnanti che sbraitavano di non alzare la voce dimostrando che l’unico modo per dialogare era “solo” quello di aumentare i decibel in quella stanza.
Urlare rende i bambini aggressivi
Così in classe. Mentre facevo lezione ad un certo punto sobbalzavamo per le urla che provenivano dall’aula accanto. L’identikit del docente che dice a gran voce “State zittiii!” non conosce età, sesso. Ho sentito sfogarsi maestri e maestre, anziani e giovani, laureati e non. In quel momento nessun docente credo pensa allo studio condotto dall’Università di Pittsburgh dove hanno scoperto che gridare regolarmente ai bambini nasconde molti rischi per il loro sviluppo psicologico. Gli psicologi americani hanno analizzato 976 famiglie e i loro figli per due anni e hanno registrato che urlare ogni giorno come se fosse uno stile educativo può predire l’insorgenza di problemi comportamentali aggressivi o depressivi a 13 anni. Addirittura gli psichiatri di Harvad Medical School hanno capito che l’umiliazione data dalle grida può alterare la struttura del cervello infantile.
Dovremmo avere ben chiaro come scrive Celine Alvarez che in Francia ha dato vita ad un movimento “educativo” dopo aver condotto un progetto sperimentale presso la scuola dell’infanzia periferica di Gennevilliers che “i bambini sono dotati di una grande plasticità cerebrale e fanno propri i nostri comportamenti e i nostri atteggiamenti quotidiani”.
Il silenzio “chiama” il silenzio
Parole che traduco nella pratica quotidiana in aula. Entrando non mi son mai messo a urlare di mettersi al posto (quale posto?) o di stare zitti. Di solito li lascio fare: giocare, urlare, scorrazzare per la classe. Mi siedo sul banco uguale al loro (nelle mie aule non esiste la cattedra). Sistemo i miei “attrezzi”. Dopodiché resto in silenzio a guardarli. Senza dire nulla. Dopo qualche istante c’è qualcuno che si ferma, abbassa la voce. Altri che richiamano il compagno che sta ancora schiamazzando. Nel giro di tre – quattro minuti la classe è pronta. Scrive ancora Alvarez: “Il nostro atteggiamento empatico, calmo e conciliante fu fondamentale nell’aiutare i bambini a sviluppare buone abitudini sociali”.
Nemmeno di fronte a reazioni scomposte serve perdere la pazienza. Ho in mente ancora quando Samuele urtò il banco sbattendolo a terra dal nervoso dopo un litigio. Non urlai. Aspettai che terminasse il suo sfogo per poi proporgli di uscire a parlare, lontano dallo sguardo degli altri compagni, lontano dal luogo dov’era avvenuto quel fatto. Ce lo insegna Daniele Novara in “Urlare non serve a nulla” (Rizzoli): “Imparare a prendere tempo e recuperare la giusta distanza”. Una volta rientrati in aula abbiamo “litigato bene” dialogando. Ho lasciato “spazio” ai bambini, alle loro voci.
Il maestro che urla perde la fiducia degli alunni
Il maestro o la maestra che urlano non hanno rispetto del bambino. Magari sapranno anche insegnare le frazioni e le espressioni, i verbi e le preposizioni ma non hanno lo sguardo educativo necessario a chi fa questo mestiere. Un insegnante che alza la voce ha già perso la fiducia.
Nemmeno di fronte alle lacrime risolveremo mai la situazione urlando. Quante volte ho visto bambini piangere per la rabbia: «Dobbiamo rispetto alle sue sconfitte e lacrime. Le lacrime di ostinazione» scrive il medico Janusz Korczak che fondò la Casa dell’Orfano nel ghetto di Varsavia «e capriccio sono lacrime di impotenza, ribellione, un disperato sforzo di protesta, una richiesta d’aiuto».