Lo ammetto. Anche se non sono per niente “social”, quando vado a una mostra, in vacanza, in treno, a sciare, mi viene spontaneo scattarmi un selfie. Non tanto per condividerlo su Instagram, né sulla chat di famiglia o su quella con le amiche, ma per tenerlo lì, come a dirmi: «Ci sono stata anche io». Non devo essere l’unica ad avere questa mania, visto che gli ultimi dati ci rivelano che oggi, nello stesso tempo che si impiega a contare fino a 3, nel mondo si scattano circa 3.000 selfie, oltre 1.000 al secondo. Per una media totale di 93 milioni al giorno.
Dove (e perché) sono vietati i selfie
Un numero folle, che però sembra destinato a diminuire. Nell’ultimo anno alcune località hanno deciso di vietare i selfie, ufficialmente o sotto forma di suggerimento, con l’intento di arginare il turismo maleducato e di riabituare i visitatori a guardare con gli occhi, a godersi quell’attimo dal vivo e non attraverso uno schermo. In Italia, a sposare la filosofia no-selfie è stata per prima Portofino: il sindaco scoraggiava gli autoscatti e le foto nelle zone più suggestive del borgo per evitare che nei posti più panoramici si formassero lunghe file. Dello stesso pensiero deve essere stato il sindaco di Sassari, che ha deciso di bandire i selfie per strada. Il divieto riguarda qualunque via della città e avrebbe lo scopo di evitare che le persone si distraggano mentre camminano e finiscano per essere travolte dalle auto o da altri passanti. Le multe? Salate: da 250 a 1.500 euro.
I giapponesi sono stati i primi a proibirli
Ma i primi a prendere provvedimenti in questo senso sembrano essere stati i giapponesi, un popolo estremamente rispettoso delle regole e insofferente al caos. Già dal 2019 Kyoto ha vietato selfie e foto con le geishe che risiedevano nel quartiere di Gion. La pena in caso di trasgressione? 10.000 yen, circa 85 euro. Visto però che l’idea dei cartelli che vietano le istantanee nella zona in questione pare stesse funzionando poco, il consiglio locale ha addirittura distribuito dei segnalibri con la raccomandazione, scritta in cinese e inglese, di non scattare foto. Chissà se sortiranno l’effetto desiderato! Un’altra no-selfie zone è Pamplona, in Spagna, dove durante la famosa corsa con i tori è severamente vietato farsi un autoscatto. Il motivo in questo caso è semplice: un attimo di distrazione può costare la vita.
I musei sono “no-selfie zone”?
Il divieto vale anche per i musei e le opere d’arte? Gli amanti degli autoscatti sempre e dovunque possono stare tranquilli, perché qui le regole sono meno restrittive: nella maggior parte dei casi, infatti, scattare selfie o foto ai quadri in un museo non è vietato, a meno che non ci si avvicini eccessivamente o non si usi il flash che potrebbe col tempo rovinare i pigmenti dei dipinti. Faceva eccezione fino a settembre dell’anno scorso Guernica, la celebre opera di Pablo Picasso che, da quando nel 1981 è stata spostata dal MoMa di New York al Reina Sofía di Madrid, era stata dichiarata infotografabile per preservarne la bellezza e rendere la visione ancora più coinvolgente. Da alcuni mesi, però, la nuova direzione del museo spagnolo ha deciso di cancellare il divieto e permettere nuovamente ai visitatori di ritrarre il capolavoro. Con dei limiti: niente bastoni da selfie.
Ma perché ci piacciono così tanto gli autoscatti?
Il selfie ci permette, prima ancora di abitare lo sguardo degli altri, di recuperare quell’unico oggetto che mancherà sempre nel nostro campo visivo: noi stessi. Ma soprattutto ci rassicura, ci fa stare tranquilli, ci fa sentire che non ci stiamo perdendo niente. Ce lo spiega Alice Avallone, etnografa digitale: «L’autoscatto mette a fuoco quell’istante. A differenza della fotografia, che da sempre è un supporto per il ricordo, i selfie servono per bloccare quel determinato momento che abbiamo paura che ci sfugga. Non sono un aiuto per la memoria, ma un dialogo con chi ci guarda, una comunicazione verso l’esterno». Per gli altri, per tutti quelli che sono lì a scrollare il nostro feed di Instagram. Per far sapere a loro che al Louvre ci siamo state anche noi, che in quel nuovo locale a prendere l’aperitivo ci siamo andate sabato scorso, che quel negozio appena aperto non ce lo siamo fatte scappare.
I selfie e la paura di perderci qualcosa
Perché, non nascondiamolo, la malattia del secolo è la Fomo, che sta per “fear of missing out”, la paura di perderci qualcosa, l’ossessione di dover fare assolutamente cose fighe da postare su Instagram e Facebook. «Ci sentiamo come se fossimo obbligati a dimostrare di avere una vita felice e piena. Abbiamo l’urgenza di fare piani con gli amici, organizzare viaggi dimostrando poi in Rete quanto ci siamo divertiti. E il selfie ci aiuta proprio in questo: a esserci, a simulare felicità» continua l’esperta. «Anche perché oggi se non l’hai fotografato, se non hai “bloccato” quel momento in un autoscatto, non ci sei stato, non l’hai vissuto». Il selfie, un’immagine pensata per essere condivisa, quindi non è un atto individuale ma sociale e rappresenta la nostra costante interazione con le persone che, direttamente o indirettamente, fanno parte della nostra vita. Ha il valore fugace delle parole, ma è una testimonianza, sta lì a dire a noi stesse e agli altri: “Tranquilla, ci sei, anche tu sei felice”. Per questo è umano.
E se ne facessimo di meno?
«Certo, se riuscissimo a farne a meno, magari anche solo in qualche situazione, potremmo goderci di più il “qui e ora”, potremmo respirare davanti a un’opera o a un panorama, vivere pienamente e immagazzinare l’emozione che quel quadro, quel tramonto, ci trasmettono. Perché lo schermo del nostro smartphone è contenitivo, ci fa da filtro, in qualche modo ci protegge. Attutisce, appiattisce le sensazioni» aggiunge Alice Avallone. Intanto, però, mentre noi Boomer e Millennials cerchiamo di imparare a gestire il nostro “tecnoentusiasmo” e la Fomo, c’è una buona notizia. «Alla Gen Z e agli Alpha i selfie sembrano non interessare. C’è un ritorno alla vocalità e all’oralità, dimensioni più intime e profonde rispetto a quella dell’immagine. In cui ti senti meno esposto e in cui conta più il contenuto della forma» conclude l’esperta. Deve essere proprio così, visto che mia figlia, 12 anni, ogni volta che le propongo di farsi un selfie con me, mi guarda come se venissi dalla Luna.