Sédhiou è un agglomerato di case lungo uno stradone. Ci sono botteghe di cibo e vestiti, tre banche, un Auchan e un mercato che vende di tutto, dalle pile ai letti king size, esposti sul marciapiede per decine di metri fino alla spiaggia e a un lungo pontile, dove pagaie leggere dondolano guardando l’altra sponda del fiume.
Qui, in una casa dall’ampio cortile, dove le voci si mischiano al ritmo lento di un pestello che schiaccia arachidi dentro un mortaio, ci aspetta Coumba Aw, 21 anni. La champion designata a rappresentare il suo Paese il 23 maggio all’evento sui media organizzato da Amref Italia a Roma, a ridosso dell’Africa Day del 25. Ad accoglierci, una delegazione festosa di bambini, che ci saltano al collo e si fanno rincorrere da Sofia Viscardi ridendo sfrenati.
La storia di Coumba
In questa piccola ma rumorosa comunità familiare sembra regnare il matriarcato. Se Coumba oggi è una giovane attivista, lo deve alle sue due mamme (una è la zia materna) e alla nonna. È quest’ultima, Khady Mane, 79 anni portati regalmente, che siede silenziosa sotto al patio e giganteggia su una foto in soggiorno circondata dai membri dell’Assemblea nazionale, colei che ha rotto la catena della violenza e inaugurato tra le femmine della sua genia un nuovo corso di autocoscienza e impegno. Benché sia stata escissa da bambina, e senza postumi eccessivi, ha visto coi suoi occhi, grazie al lavoro da ostetrica, quali orribili conseguenza può portare la mutilazione genitale e ha deciso che doveva porvi fine.
«È possibile rimpiazzare il coltello con rituali alternativi» dice una delle sue figlie, Ndèye Fary Seck. «In fondo, la funzione principale dei riti di passaggio è tramandare i valori familiari e le buone maniere. Per questo le bambine vengono allontanate da casa per due settimane alla soglia della pubertà, per imparare a comportarsi e a parlare, rispettare gli anziani, mantenersi integre e pure. Tutte cose che si possono insegnare senza inutili spargimenti di sangue».
Coumba annuisce alle parole della zia. È da quando ha 14 anni che ha iniziato la sua missione insieme alle altre Champions di amref, ispirata dalle femmine di casa. La nonna, ci dice orgogliosa, è stata anche deputata: tra il 2012 e il 2017 ha condotto importanti campagne di sensibilizzazione contro le MGF, soprattutto nei villaggi di confine.
Intervista a Coumba Aw, una delle champions di Amref
Tu come hai cominciato?
«Con una trasmissione radiofonica chiamata La voix des enfants. Sono stata selezionata per parlare di escissione, gravidanze precoci, diritti dei minori. Col tempo ho rafforzato la mia preparazione e sono entrata nel CCA, iniziando a viaggiare in varie città del Sud del Senegal, in Tanzania, Kenya, per sensibilizzare le ragazze».
Ti vedono come un modello.
«Sì, e sento la responsabilità di essere un esempio per loro: questo impronta il mio modo di parlare e di agire, non posso deluderle nel mio ruolo di leader».
Champions per Amref: divulgare per salvare
Come dialoghi con loro?
«Per lo più di persona, attraverso i Centre de jeunesse o andando a casa loro. Ma anche utilizzando i social: YouTube, Instagram, Facebook. Le piattaforme sono utilissime per raccogliere testimonianze e aiutare chi ascolta a prendere consapevolezza di certi problemi».
Che cosa chiedono?
«Spesso solo ascolto. Altre volte aiuti concreti. Nel club delle ragazze non solo facciamo educazione, ma insegniamo loro tante attività pratiche affinché possano guadagnare soldi e non dipendere dai ragazzi quando saranno grandi».
Che ruolo hanno i maschi?
«Dipende. Alcuni ci supportano, li chiamiamo “padri educatori”. Fanno attività con noi nei centri, aiutano le giovani in difficoltà, le accompagnano quando girano da sole. Altri invece si approfittano delle ragazze. A quelle che chiedono un passaggio per andare a scuola, che per molte è lontana da casa, domandano uno “scambio di favori”. Tante adolescenti rimangono incinte così. E si perdono. Perché i compagni e le stesse famiglie, considerandole delle “disonorate”, prendono le distanze da loro. Per fortuna ci sono associazioni che le aiutano, dando loro cibo e soldi o trovando un posto in cui stare. Ma sono poche, così fnisce che tante si prostituiscono per sopravvivere».
Come ti senti ad affrontare storie come queste?
«Il mio lavoro nasce da una forte passione, ma è molto faticoso emotivamente e psicologicamente. A volte passo tutto il giorno a piangere. È successo quando è morta Solo, la ragazza che veniva a farmi le treccine. I genitori le hanno organizzato un matrimonio combinato, senza neanche avvisarla. Lei non voleva assolutamente e si è impiccata. Aveva 16 anni. La sua famiglia ha fatto un video e l’ha condiviso. È stato terribile».
Champions per Amref: le speranze
Ci sono anche momenti positivi?
«Sì, per fortuna. Una ragazza abusata da un familiare ha avuto la forza di raccontare tutto a uno psicologo e, anche se aveva paura del padre, è riuscita a parlargli. Ho condiviso la sua storia sul mio blog e tante dopo hanno trovato il coraggio di rompere il silenzio e confidare storie simili».
Di cosa hanno paura le ragazze?
«Di non essere credute. In Senegal ci sono tanti casi di aggressione sessuale, ma le vittime non parlano perché vengono stigmatizzate e colpevolizzate dalla stessa polizia quando provano a denunciare. Dicono che è stata colpa loro, che hanno provocato l’aggressore».
Cosa sogni per te e per il tuo Paese?
«Sogno di creare una mia Fondazione per aiutare le donne in difficoltà. E spero che nel mio Paese possa sparire ogni forma di violenza e affermarsi la vera uguaglianza. Oggi le ragazze con un diploma e tutti i requisiti necessari per lavorare fanno fatica a trovare un posto. Questo le rende economicamente dipendenti dagli uomini e più vulnerabili. Dobbiamo essere libere».