Colpevole. Così si è espressa la giuria del processo di Derek Chauvin, l’ex poliziotto che lo scorso 25 maggio ha tenuto per più di 8 minuti il ginocchio premuto sul collo di George Floyd, causandone la morte. Chauvin è stato dichiarato colpevole di omicidio involontario di secondo grado, reato per cui è prevista una pena massima di 40 anni di carcere, di omicidio di terzo grado (pena massima 25 anni) e di omicidio colposo (pena massima 10 anni). Il verdetto è arrivato martedì 20 aprile, il giorno successivo alla fine del dibattimento: la pena definitiva, invece, sarà decisa dal giudice che ha presieduto il processo, tra otto settimane.
Il video che riprendeva quegli otto, terribili, minuti, ha fatto il giro del mondo, dando il via a una serie di proteste che da Minneapolis, città di Floyd, si sono poi diffuse in tutto il mondo, portando nuovamente l’attenzione sulla violenza della polizia sulle persone nere o appartenenti a minoranze etniche. Un problema che non riguarda solo l’America e che, anche per via di quel video, ha fatto sì che i crimini a sfondo razziale fossero discussi e analizzati in molti Paesi, Italia compresa.
Cosa ha significato quel video
A registrare quel video è stata Darnella Frazier, una ragazza di 17 anni che quel giorno era uscita con il cugino di 9 anni per le strade di Minneapolis, inconsapevole di quello che sarebbe successo da lì a poco. È stata lei a registrare l’agente di polizia Derek Chauvin inginocchiato sul collo di George Floyd e martedì ha anche testimoniato durante il processo di Chauvin, dove il suo video era una delle prove principali dell’accusa. Diventato virale in brevissimo tempo, il video non ha solo provocato commozione e rabbia in tutto il mondo e innescato le proteste ma, soprattutto, ha messo in discussione la versione ufficiale della polizia di Minneapolis sull’accaduto, che inizialmente aveva parlato di un soggetto che «opponeva resistenza fisica», «sembrava sotto l’effetto di stupefacenti» e «in preda a problemi di natura medica». Una versione sconfessata dalla brutalità della registrazione di Frazier, in cui si sente la vittima ripetere più e più volte “Non riesco a respirare”.
Come i video delle violenze sono diventati uno strumento di difesa e sensibilizzazione
Quello di George Floyd non è certo il primo video, che negli ultimi anni, ha documentato le violenze della polizia americana contro gli afroamericani. Al contrario, è l’ultimo di una lunga serie di episodi comparsi sui social, che spaziano dalle micro-aggressioni razziste – persone insultate sui mezzi o nei locali pubblici per via del colore della pelle o delle loro caratteristiche fisiche – fino a violenze vere e proprie. Le morti registrate ormai non si contano, da Philando Castille, ucciso a luglio del 2016 da un agente durante un semplice controllo automobilistico di fronte alla fidanzata e alla figlia, ad Ahmaud Arbery, freddato nel febbraio del 2020 da un gruppo di uomini bianchi (gli stessi che l’hanno ripreso) mentre faceva jogging perché considerato “sospetto”. Sono anzi così frequenti che molti attivisti che sensibilizzano sul tema mettono in guardia dal trauma che la ricondivisione di questi contenuti particolarmente violenti provoca nelle persone che in quel trauma ci si rivedono.
Nel 2016, Will Smith aveva detto al presentatore televisivo Stephen Colbert che «il razzismo non sta peggiorando, viene solo filmato», sottolineando come quegli episodi, dal più banale al più grave, fossero da sempre una realtà quotidiana per milioni persone, in America come altrove. L’unica differenza era data dal fatto che con l’avvento degli smartphone, e dei social media, registrare è diventato allo stesso tempo una forma di autodifesa e uno strumento di sensibilizzazione, un modo per proteggersi in una situazione che potrebbe prendere una brutta piega o per documentarne una che, come nel caso di Derek Chauvin e George Floyd, verrebbe molto probabilmente raccontata in tutt’altro modo dalle fonti “ufficiali” (cosa sarebbe successo in Italia se avessimo avuto un video di quello che è successo a Stefano Cucchi?).
La scrittrice Sarah Ladipo Manyika, che vive in America con il marito e il figlio, aveva raccontato a Donna Moderna la difficoltà di crescere un ragazzo nero in un Paese in cui i giovani uomini che hanno il suo colore di pelle sono considerati da molti automaticamente dei criminali: «Non è una sorpresa che noi mamme dobbiamo dire ai nostri figli di fare attenzione a come si vestono, di non indossare felpe col cappuccio quando fa scuro, di non usare le pistole ad acqua, di non spaventare le ragazze bianche se vanno in giro di notte. Tutta una serie di cose che i neri provano sulla propria pelle e che possono avere conseguenze sulla salute mentale ed emotiva. Perché se sei sempre preoccupato e sul chi vive, se non ti consideri al sicuro, prima o poi ne risenti». E quei video ora mostrano anche a tutti gli altri.