Sulla scia del movimento americano Going flat, si comincia a parlare anche in Italia delle donne che non vogliono la protesi dopo un intervento chirurgico di asportazione del seno. Un’opzione poco nota, quella di vivere “flat”, piatte, ma che comunque i medici ritengono possibile (qui il parere di una nota oncologa che abbiamo intervistato).
Le pazienti stesse finora ne hanno parlato poco al di fuori della famiglia e dell’ospedale. Ci pensa per tutte Daniela Fregosi attraverso il suo blog Afrodite K, che sta diventando il punto di riferimento per le donne italiane poco convinte che la ricostruzione dopo la mastectomia sia necessaria. Noi intanto abbiamo deciso di dare voce alle molte donne che, in silenzio e con dolore, hanno imboccato questa strada. Vi invitiamo quindi a scriverci e a raccontarci la vostra storia. Aspettiamo le testimonianze via mail a questo indirizzo: [email protected] oppure sulla nostra pagina Facebook (su cui potete lasciare un messaggio privatamente).
Perché rifiutare la protesi dopo la mastectomia
Nel 2013 Daniela riceve la diagnosi di carcinoma infiltrante della mammella e si sottopone all’intervento. Si sveglia dall’intervento con un espansore mammario che viene sistemato sotto i pettorali (e che ha tutt’ora): una sorta di cuscinetto con la funzione di allungare il muscolo pettorale, per facilitare, in seguito, l’inserimento della protesi. «Col passare del tempo però mi sono resa conto del disagio di vivere con questo “corpo estraneo” addosso. E posso solo immaginare quanto lo sarebbe con una protesi. Io, poi, faccio trekking e lo zaino sollecita i pettorali in modo intenso. Per non parlare dei balli caraibici, la mia passione, che comportano movimenti importanti delle braccia e di conseguenza dei pettorali. Mi chiedo: come potrei sopportare le protesi? Oltretutto, quando ne metti una, devi adeguare anche l’altro seno, operandolo per renderli uniformi. Tutto considerato, dunque, ho valutato che la mia qualità di vita fosse assai più importante di un seno nuovo. E per ora sto bene così».
Il rifiuto per la protesi ha anche una ragione economica. Daniela è una lavoratrice autonoma. «Negli otto mesi successivi ho avuto una serie di complicanze che non mi hanno permesso di lavorare. È stato un dramma, che mi ha spinto a rifiutare l’intervento per mettere la protesi e poi quello successivo per adeguare la forma dell’altro seno. Oltretutto, avrei perduto la sensibilità anche alla mammella non operata». Da quel momento Daniela si batte per i diritti delle donne lavoratrici autonome che, come lei, non vengono tutelate nel caso in cui si ammalino di tumore e non possano lavorare.
«Le donne operate al seno vengono informate poco»
La denuncia di Daniela Fregosi, pubblicata sulla sua pagina Facebook, è drammatica: «In Italia su questi temi siamo davvero anni luce indietro e la presentazione alle donne di “tutte” le opzioni a loro disposizione dopo un tumore al seno è effettiva solo in teoria. Nella pratica, vengono proposte solo le opzioni più plausibili (non si capisce però per chi) e completamente oscurate le altre, tanto che se te ne viene in mente una diversa c’è pure il rischio che ti senti “strana e sopra le righe”. Questo non deve assolutamente succedere! Qualsiasi opzione venga scelta deve essere prima conosciuta (non posso scegliere veramente ciò che non conosco o ciò che non è socialmente accettabile), in seconda battuta deve andare incontro ai bisogni percepiti dalla donna e non a quelli che gli altri (medici, altre donne, amici e familiari, società) le attribuiscono o le proiettano addosso».
«Le terapie dopo l’intervento sono lunghe e dolorose»
Daniela, ci racconta ancora, non ritiene che la sua decisione di rinunciare alla protesi sia definitiva. Per ora ha scelto così, forse un giorno cambierà idea. «Ma anche chi sceglie la ricostruzione, spesso deve affrontare parecchi interventi per adeguare le misure dei seni», continua. «Rispetto ogni decisione, ma vorrei che da parte dei medici ci fosse più chiarezza su cosa accade “dopo”, anziché concentrare le informazioni sul fatto che con la protesi possiamo tornare come prima. Perché non è vero. O comunque, si devono attraversare molte sofferenze. Vorrei insomma che, oltre a parlarci di protesi e trattamenti cosmetici, ci spiegassero di più a che cosa andiamo incontro, alle terapie devastanti, a una sessualità inesistente, a problemi di fertilità».
Le testimonianze delle donne italiane che rifiutano le protesi
Daniela nel suo blog raccoglie molte testimonianze. Tante sono le donne che scrivono, e sempre in forma anonima, per raccontare la loro scelta controcorrente di non mettere le protesi. Come questa: “La vita mi ha riservato quest’esperienza esplosiva. E non basta un pezzo di silicone a cancellarla. C’è. Elaborata alla mia maniera, e me la tengo, ruvida e cruda com’è. Fa parte di me.”
Oppure: “Negli ultimi 19 anni ho subito ben 3 quadrantectomie allo stesso seno e dopo l’ ultimo intervento ho cercato di provare con una protesi esterna. Ma la cosa mi ha avvilito e creato problemi mai riscontrati, perciò’ ho deciso di non usare più nemmeno quella”.
C’è poi Renata che ricorda la scelta coraggiosa della sua mamma:
«Era un giorno importante, in auto a fianco del mio vicedirettore ripassavo con lui ciò che avrei dovuto dire a un nuovo cliente… suonò il telefono, era mia madre che mi diede la triste notizia di doversi recare con urgenza dall’oncologo. Un fulmine a ciel sereno, l’inizio di un percorso accanto a lei, durato 7 anni. Operata un mese dopo, decise da subito di non voler inserire la protesi. Ho sempre rispettato le sue decisioni, ma credo che dentro di lei in quel momento, l’attaccamento alla vita e il non volere essere un peso per la famiglia, abbiano avuto il sopravvento sull’estetica. Una scelta dettata dalla consapevolezza di sé come madre, moglie e suocera, che andava a mortificare l’elemento donna. Conservo di lei il ricordo di una donna forte, che ha lottato fino all’ultimo cercando di alleviare il dolore ogni giorno nella famiglia, ma conservo purtroppo anche il ricordo di quella cicatrice indelebile. Pochi giorni fa al controllo annuale in senologia, guardavo le donne che entravano ed uscivano per la mammografia …tra tutte, sguardi di intesa, coraggio e solidarietà, senza pronunciare parole, senza conoscersi tra loro».
Un’altra lettrice (che vuole restare anonima) scrive così: «Io ho quasi 60 anni, la mia femminilità non passa attraverso il seno. Durante i colloqui con l’équipe di oncologi e psicologi, però, mi sono sentita una “bestia rara” a non dare importanza a questo aspetto. E così ho deciso anch’io di mettere l’espansore. Ma sinceramente, se avessi saputo meglio a cosa sarei andata incontro, con le infiammazioni che ho avuto e l’intervento che ancora devo fare per mettere la protesi, non avrei accettato».
O ancora: “Ho provato tantissimo dolore, anche adesso che ho completato il gonfiaggio della protesi. E provo una gran rabbia, perché devo corrispondere esteriormente a un modello di donna che io non sono più, perché la malattia mi ha cambiata. La diversità va accettata e così la sua manifestazione esteriore. L’unica consolazione è che, se starò bene, magari fra un po’ avrò il coraggio di tornare sotto i ferri e farmela togliere. Però vi dico: fate una scelta vostra, di pancia e di testa, e non lasciatevi imporre qualcosa dagli altri”.
Avete anche voi fatto la stessa scelta dopo un tumore al seno, o conoscete donne in questa situazione? Scriveteci via mail a questo indirizzo: [email protected] oppure sulla nostra pagina Facebook (su cui potete lasciare un messaggio privatamente). Pubblicheremo le vostre storie.