«Il populismo è una filosofia politica in cui “il popolo” si scontra con le élite, in una lotta per il dominio». Così scrive sull’Atlantic la giornalista Olga Khazan. Così il populismo si è manifestato sulla mia bacheca di Facebook all’indomani della rinuncia di Giuseppe Conte a formare un governo. Il popolo contro Sergio Mattarella, rappresentante numero 1 dell’élite. Responsabile di aver posto il veto su un ministro e di aver provocato il passo indietro dell’aspirante premier. Ho letto l’inimmaginabile. Superata la repulsione iniziale (in fondo su Facebook scorro opinioni di gente che mi sono scelta), ho analizzato gli status di amici e conoscenti. Pochissimi sono entrati nel merito del tema, ovvero se Mattarella abbia fatto bene o male a porre il veto su un ministro. Quasi tutti hanno messo in dubbio la sua legittimità a farlo. Poco importa che fior fior di studiosi abbiano spiegato che il Presidente ha agito nel pieno dei poteri riconosciutigli dalla Costituzione. E che no, non è la prima volta che quei poteri vengono usati. Ma è la prima volta in cui non c’è un nome alternativo in risposta a un veto. Ho sempre pensato che il populismo si potesse disinnescare con una migliore informazione.
Oggi devo prendere atto che la disinformazione non è tanto la causa quanto la conseguenza dell’avanzata del populismo: i giornalisti, gli esperti e i commentatori appartengono all’élite da distruggere. Al nemico. Non vanno ascoltati. E così, man mano che il populismo guadagna terreno, l’Italia si informa sempre meno, anche su Internet, come denuncia l’ultimo rapporto della Commissione Ue. Ma se la disinformazione è la conseguenza, qual è la causa della sfiducia verso le élite? «Il calo delle nascite» suggerisce l’interessante articolo dell’Atlantic che ho citato in apertura. I populismi crescono lì dove le economie sono stagnanti e le popolazioni diminuiscono, specie nei luoghi rurali e nelle piccole città. L’aumento dell’immigrazione per compensare il calo di lavoratori non risolve il problema, ma anzi lo peggiora: «Le persone si spaventano per l’afflusso di nuovi arrivati, diventano più xenofobe e quindi più inclini a sostenere i partiti nazionalisti». È su questa vulnerabilità, dunque, che bisogna agire. La strada è ben più difficile: si tratta di riconoscere il diritto di sentirsi insicuri e assumersi il dovere di costruire, lentamente, nuove certezze.