Riflessione, speranza, coraggio. Tre parole che descrivono bene l’effetto generato dall’anteprima della pièce Shakespeare 2.0 sui cinquecento studenti delle superiori che lo scorso 7 marzo hanno riempito il Teatro Menotti, a Milano. «Bellissimo», dice sottovoce una di loro mentre le luci del teatro si riaccendono e il sipario si chiude, tra gli applausi, davanti a Francesca Barra e Claudio Santamaria. Che hanno sposato con entusiasmo il nostro progetto sui diritti delle donne Libere e uguali.
Shakespeare: parole magistrali, ancora attuali
Un’ora prima lo spettacolo si era aperto sulle note di Bach: sul palco, solo un violino e due leggii. Niente scena. L’attenzione è tutta sulle parole. Quelle che Barra e Santamaria hanno preso in prestito da Lo stupro di Lucrezia, scritto da Shakespeare quattrocento anni fa, e che pure riescono ancora oggi a descrivere bene le forme e gli stadi del dolore di una donna che subisce una violenza. L’incapacità di opporsi allo stupratore. Il terrore figlio della consapevolezza di quanto sta accadendo. I segni indelebili lasciati dall’abuso, non solo sul corpo. E poi le insinuazioni, i giudizi, la vergogna. La stessa con cui Lucrezia non riuscì a convivere tanto da togliersi la vita. Perché, rubando le parole a Shakespeare, «si incolpa il fiore che è appassito e non l’aspro inverno che lo ha ucciso». Ieri come oggi. Difficile distinguere il 1594 dal 2024.
Il nostro talk con Barra, Santamaria e la direttrice Maria Elena Viola
Quanto altro tempo ci vorrà ancora? Ce lo siamo chiesti subito dopo lo spettacolo, sull’onda della riflessione, in un talk con i due attori, i ragazzi e la nostra direttrice Maria Elena Viola. Abbiamo parlato di gender gap, della cultura che svaluta le donne, di educazione all’affettività, di consenso, della vita dopo lo stupro, di tutti quei retaggi per cui ancora è costretto a difendersi chi dovrebbe essere difeso. Proprio come Lucrezia. O Anna Maria. O Asia. A loro e a tutte le altre donne vittime di violenza Barra e Santamaria dedicano Shakespeare 2.0, insistendo sull’importanza di chiamare le cose con il loro nome, fare catene di idee, aprire dibattiti.
Shakespeare a teatro conquista i ragazzi
Anche partendo dalla mano alzata di uno studente. Le prime sono timide, poi accelerano: al Menotti monta un comune desiderio di farsi sentire. Al palco vengono rivolte domande, riflessioni, testimonianze. E mentre qualcuno parla, tutti rimangono – attenti – ad ascoltare. Improvvisamente il teatro non è più solo un teatro, ma si trasforma in uno spazio di confronto, in un’opportunità di dialogo, in un luogo sicuro in cui ascoltare e ascoltarsi. Nell’aria si respira qualcosa di diverso: Shakespeare ha conquistato quei ragazzi, le voci di Barra e Santamaria li hanno smossi, gli interventi dei coetanei li hanno fatti riflettere. Tanto da non sembrare quasi più gli stessi di prima. Entrati in un teatro con la spensieratezza di chi si è scansato l’aula per qualche ora e usciti con il coraggio di chi crede che le cose possano ancora cambiare. Anzi, debbano. Perché è il 2024.
Con la collaborazione scientifica di Università degli Studi di Milano
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