Il parlamento francese deve esaminare una proposta di legge per scoraggiare lo sharenting (da sharing e parenting), ovvero la tendenza di alcuni genitori di diffondere sui social media le immagini dei figli.
La proposta di legge francese contro lo sharenting
Si va dalle banali foto delle vacanze alle immagini dei voti presi a scuola, ai video di genitori che su YouTube o TikTok trasformano i bambini, magari di 3 o 4 anni, in vittime di scherzi più o meno divertenti e personaggi di una sorta di reality. «Si stima che un bambino appaia in media in 1.300 fotografie pubblicate online prima dei 13 anni, sui propri account, su quelli dei genitori o dei famigliari», scrive il deputato macronista Bruno Studer nella proposta di legge, citando un rapporto del 2018 del Children’s Commissioner for England.
Secondo questo rapporto, la vita privata dei minori è a rischio, e la principale minaccia arriva spesso dai genitori. Uno degli argomenti principali del partito di maggioranza Renaissance, che vuole sensibilizzare contro la pratica dello sharenting, è che molte foto in partenza innocenti vengono poi usate nei siti di pedofilia.
I vip e lo sharenting
I vip sono in prima linea nello sharenting, ma anche noi comuni mortali non ci tiriamo indietro.
Cosa c’è dietro lo sharenting: il piacere del “carino”
Ma, esattamente, cosa c’è dietro questo irrefrenabile bisogno? La risposta sta nel titolo di un saggio illuminante: Carino! Il potere inquietante delle cose adorabili (Luiss Press). Del resto, a cosa ambiamo quando andiamo a caccia di un like se non a quel “carino” – cute, in inglese – da strappare nei commenti? «A ispirarmi è stata la donna a cui ho dedicato il libro: si chiama Mimi Durand Kurihara, è metà francese e metà giapponese. Non è mia moglie, sono divorziato, piuttosto direi che condivido con lei un’affinità elettiva» racconta l’autore Simon May, filosofo e docente al King’s College di Londra. «Mi ha fatto riflettere su questa ricerca di un modo di essere gentile e giocoso nata in Giappone dopo la fine della seconda guerra mondiale, quando si manifestò forte il bisogno di lasciarsi alle spalle la violenza del conflitto. Nella categoria del “carino” rientra tutto ciò che ci appare piccolo, vulnerabile, buffo: penso a personaggi come Hello Kitty, la gattina dei manga, o Baby Yoda con le sue orecchie grandi. E cosa c’è di più tenero e innocente dei bambini?».
Le foto dei figli sono “cute”, dolci e pure
Simon May non è padre e non usa i social, ma per il suo libro ha intervistato molti genitori. «E tutti hanno risposto che postano le foto dei figli perché per loro sono cute, nel senso di dolci e puri. Alla base, a mio avviso, c’è però qualcosa di più profondo e misterioso, che da un lato si richiama al culto dell’infanzia, ritenuta sacra nell’Occidente moderno, dall’altro esprime una crisi di identità generata dalla nostra società individualista. Le persone non si riconoscono più come appartenenti a una famiglia, a una classe sociale o a una religione: hanno sempre più bisogno di costruirsi come individui, il che implica il massimo dell’autopubblicità».
Mettere in piazza la vita dei figli
E i social fanno da cassa di risonanza. «Quello che mi colpisce non è tanto la condivisione, quanto la leggerezza con cui si fa» osserva Laura Brambilla, psicologa che collabora con Alice Onlus e formatrice in corsi per genitori, bambini e adolescenti. «Ai genitori dico: portereste mai vostro figlio nudo sul vasino in una piazza affollata? No, ma è esattamente quello che succede se mettete una sua foto sui social. «L’adulto che cede a questa tentazione ha spesso bisogno di curare il proprio ego con i commenti lasciati dagli altri. E quasi sempre non si rende conto che i propri figli si ritroveranno un’immagine digitale costruita dai genitori. Non mancano i casi di adolescenti che si ribellano alla messa in piazza della propria vita, senza dimenticare che dai 14 anni in su serve il loro consenso. Per trattare i bambini come persone, più che come trofei social, forse bisognerebbe pensare in prospettiva: ovvero al loro futuro».
Dietro le foto, molta superficialità
Accade così che lo sharing, modello ambìto in economia, diventi la formula più abusata sui social: il prezzo è il “sacco” dell’intimità. «Io posto pochissimo, men che meno pezzi di vita con i miei tre figli. A chi dovrebbero interessare visto che a me non interessano le foto dei figli degli altri?» dice Cristiano Cavina, autore di La parola papà (Bompiani). «Cedo solo a mia madre che mi chiede se può condividere le foto che si fa con i nipoti, so che per lei è importante, un segno di affetto… Ma ammetto che, quando leggo certi racconti dei genitori sui social, penso che parlino dei figli solo per parlare di se stessi. Dietro le foto fintamente spontanee e il linguaggio brillante, però, si resta in superficie».
Dietro al culto del “carino” il culto del bambino
Sotto il cielo del cute alla fine ci si ritrova tutti, questa è la verità: oggi subisci le smorfie leziose della bambina della tua migliore amica, domani farai subire agli altri quelle del tuo cucciolo di Bichon frisé. Alla bellezza assoluta, scrive May, preferiamo un tiepido “carino”. Ed è il segnale di tante cose. Di una crisi del nostro tempo, prima di tutto: usiamo il cute, che siano le emoticon proliferanti o le foto tenere, come giocosa arma di seduzione di massa. Ma non solo. L’esplosione del “carino” rispecchia uno dei grandi sviluppi della nostra epoca, almeno in Occidente: il culto del bambino. Che è il nuovo oggetto supremo del desiderio, il luogo dove abita il sacro, l’amore senza il quale si pensa che la vita non sia vissuta a pieno. E allora Lady Gaga che sfoggia un total look rosa alla Hello Kitty fa pendant con il figlio della vicina che su Instagram appare tutto guance e sorrisi. Convenite? Fa niente poi se urla come un disperato giorno e notte: è cute a vederlo lì, in foto.