Siblings: fratelli e sorelle di ragazzi con disabilità

«Diego è la persona più importante della mia vita. Non ho mai provato un amore simile a quello che sento per lui» dice Desirée, che ha 21 anni e un fratello autistico di 11. Letizia, invece, si definisce orgogliosa di Virginia, che ha 5 anni di più e non sa comunicare con le parole: «Non credo che capiti a tutte di nascere con una sorella autistica e stare bene con lei». Il 2 aprile è la Giornata mondiale della consapevolezza sull’autismo. Una condizione che riguarda in Italia circa 600.000 persone (secondo l’Osservatorio nazionale per il monitoraggio dei disturbi dello spettro autistico, tra i 7 e i 9 anni viene diagnosticato a un bambino su 77) e che coinvolge intere famiglie, compresi fratelli e sorelle come Desirée e Letizia, quelli che la scienza definisce “siblings”: ragazzi con un carico emotivo che da un lato li rinforza, dall’altro rischia di soffocarne i bisogni.

Accanto all’amore, possono nascere sentimenti negativi

«Portati a occuparsi degli altri, i siblings diventano quasi invisibili, perché non vogliono caricare ulteriormente genitori già appesantiti da problemi» spiega Letizia Del Carratore, psicologa e psicoterapeuta a Milano. «Papà e mamma dedicano tutta l’attenzione al figlio con disabilità. Loro spesso si sentono trascurati ma non lo dicono e provano un caleidoscopio di emozioni. Logico che, accanto all’amore, possano nascere sentimenti negativi spesso messi a tacere, come la gelosia o la vergogna».

«Da piccola» racconta Letizia «ero “la bambina matura”. Detto da una persona adulta pareva un complimento. Entrare in contatto con l’autismo, in effetti, mi ha tolto tanto, ma mi ha dato anche molto, come accade con altre difficoltà della vita. Mi sono resa conto di essere più generosa e capace di prendermi cura degli altri rispetto ai miei coetanei. Grazie a mia sorella oggi mi sembra di avere una marcia in più. Non mi sono mai vergognata di lei, per me andava bene così. Virginia è molto comica e divertente. Parla poco ma comunica in altri modi: urla, ride, piange, fa rumore… A volte, pare più legata ai miei amici di quanto non sia io». Letizia si è fatta paladina di quella fetta di felicità e leggerezza che si merita Virginia, anche a costo di sacrificarne un po’ della sua. «Io mi innervosisco quando colgo sguardi di compatimento o disapprovazione. È possibile che nel 2024 la gente non sappia cos’è l’autismo?» mi dice con una rabbia sorda nella voce.

Dar voce a emozioni che imbarazzano

Rabbia, sì, ma anche senso di colpa o d’impotenza sono ombre che possono addensarsi nella mente dei fratelli di persone con disabilità. E che trovano spazio negli incontri con i coetanei e gli esperti organizzati dalla Fondazione Sacra Famiglia con il progetto Siblings, nato nel 2022 e a tutt’oggi attivo (siblings.it). «Guidati da psicologi e divisi per fasce d’età, bambini, ragazzi e giovani adulti possono raccontare le fatiche e dare voce a emozioni che non sempre si ha il coraggio di confessare. Non è mai facile ammettere di sentirsi imbarazzati davanti ai comportamenti di una persona così vicina, come un fratello o una sorella, ma è importante farlo» aggiunge la dottoressa Paola Lotti, psicologa del servizio di counseling per l’autismo della Fondazione. «Noi cerchiamo di offrire una spiegazione ai ragazzi. Siamo differenti uno dall’altro, ma impera un bisogno di assimilarsi, omologarsi e sentirsi parte di un gruppo. A chi è fuori e appare diverso si dedicano sguardi di disapprovazione, pietà, diffidenza. Non c’è nulla di personale, è un fenomeno sociale. Vederlo come tale provoca meno dolore e rabbia». Desirée lo conferma: «Quando Diego era più piccolo, ho affrontato a muso duro un bambino che lo derideva per le sue stereotipie, i suoi strani sfarfallii con le mani. Oggi mi farei scivolare la cosa addosso. Quella rabbia lì non la sento più».

E quando non ci sono più i genitori?

Il futuro è un’altra ombra: quando i genitori non potranno più occuparsi della persona autistica, se ne dovranno prendere cura loro, i fratelli. Con scarsi aiuti da parte delle istituzioni. Negli ultimi anni il ministero della Salute ha stanziato 50 milioni di euro per il potenziamento dei servizi per le persone con autismo, ma la mappatura dei servizi racconta tante mancanze e disuguaglianze, in primis quella geografica: i centri clinici e socio-sanitari per l’autismo e gli altri disturbi del neurosviluppo sono oltre 1.200, di cui più della metà, 649, al Nord, 259 (21%) al Centro e 294 (25%) al Sud e nelle Isole.

E poi non esiste ancora a livello nazionale una legge che indichi le tutele e le agevolazioni per i caregiver. È stato sbloccato il fondo di sostegno: 25 milioni di euro che Regioni e Comuni dovranno gestire nel 2024, ma si tratta di una goccia in mezzo al mare e la strada da percorrere è ancora lunghissima. Qualcuno comincia a rendersi conto di quanto sia impegnativo il “prendersi cura”. La Regione Lazio, per esempio, oltre ai contributi, ha previsto la riduzione delle tasse universitarie e il riconoscimento di crediti formativi ai caregiver più giovani. Mentre in Emilia Romagna, accanto ai contributi, sono previste le cosiddette “pause di sollievo”, in cui il personale dei servizi interviene a sostituire il parente che ha esaurito le pile.

Diventare caregiver non dev’essere un obbligo

«Diventare caregiver non deve essere un percorso obbligato per i fratelli» interviene Paola Lotti. «Si può scegliere di non farlo, senza per questo sentirsi persone cattive o incapaci. È un percorso da affrontare insieme alla famiglia perché ci si possa organizzare, trovando delle alternative». «Se mi dicono: “Dovrai occuparti di tua sorella quando i tuoi genitori non ci saranno più” mi arrabbio. Diventare per forza caregiver perché gli aiuti spesso sono inesistenti non è giusto» dice, decisa, Letizia, guardandomi negli occhi. «I miei genitori, per fortuna, mi proteggono da un futuro segnato e mi dicono: “Devi fare la tua strada. Virginia rimane una sorella ma non devi rinunciare a tutto”». «Non so cosa ci riserverà il domani» le fa eco Desirée «ma il mio ragazzo sa già che resterò accanto a mio fratello, senza per questo rinunciare a una famiglia mia. Diego è una parte di me. Non comunica a parole, ma io percepisco fiducia e amore. Se è sereno, mi dice “ti amo”; è una frase che conosce a memoria, ma quando la dice mi guarda in faccia e mi riempie di baci».

Cosa dovrebbero fare i genitori

Quando una diagnosi di autismo investe la famiglia, arriva con la potenza brutale di un treno in corsa. Non è semplice, quindi, mantenere l’equilibrio e cercare di garantire serenità ai fratelli già nati o a quelli che verranno. «La prima cosa da fare è spiegare con parole semplici agli altri figli, a qualunque età, quel che succede, perché il non detto crea incomprensioni e dolore» consiglia la psicologa Letizia Del Carratore. Anche se si è molto coinvolti dal figlio con disabilità, bisognerebbe garantire uno spazio di affetto e di tempo agli altri componenti della famiglia, ricavarsi momenti “liberi” dalla malattia, occasioni per divertirsi insieme. Ma anche essere gentili con se stessi e legittimare le proprie fatiche. E se non ce la si fa, valutare la possibilità di un sostegno psicologico ai fratelli o alle sorelle, chiedendo consiglio ai servizi socio-sanitari, al pediatra o al medico di famiglia.