“Se sei brutta, non ti molestano”. “Se sei bella, non ti prendono sul serio”. “Se sei grassa, scartano il tuo curriculum”. “Se sei carina, sono gentili con te”. Nell’ultimo anno ho visto in Rete decine di ragazze additarsi reciprocamente colpe, rivendicare ferite personali e rinfacciarsi privilegi derivanti ora dall’essere belle, ora dall’essere brutte. In mezzo allo scontro a fuoco tra gli hashtag #prettyprivilege e #uglyprivilege, in cui peraltro sono scese in campo praticamente solo donne, c’è una questione su cui riflettere: al netto dei discorsi sull’inclusione e sulla body positivity, la bellezza oggi è ancora un privilegio?

Cos’è il pretty privilege?

Per pretty (o beauty) privilege s’intende «l’insieme dei vantaggi socio-economici, politici e relazionali che una persona trae dal fatto di corrispondere ai canoni dominanti di bellezza fisica che si applicano al suo genere, alla sua identità etnica e alla sua classe sociale» spiega Chiara Piazzesi, professoressa di Sociologia all’Université du Québec à Montréal e autrice del testo Beauty Paradox: Femininity in the Age of Selfies (2023). «Coloro che sono considerati più attraenti hanno, per dirlo semplicemente, la vita più facile rispetto a un certo numero di riti sociali di passaggio (percorso scolastico, carriera professionale) e alle piccole prove di tutti i giorni (farsi servire in un negozio, ottenere un favore e così via)».

Le persone attraenti hanno più vantaggi sul lavoro (e non solo)

Lo confermano i risultati delle ricerche che hanno analizzato l’effetto del pretty privilege sulle esperienze e opportunità di vita. «I risultati sono simili: le persone considerate più belle sono avvantaggiate nelle relazioni personali e nella ricerca di partner per una relazione intima. Ma anche a scuola e all’università, per esempio quando devono negoziare un’eccezione alle regole. E perfino nel mondo del lavoro: guadagnano di più, ottengono più facilmente promozioni» dice Piazzesi. Da uno studio recentemente pubblicato su INFORMS Journal sugli effetti dell’attrattività sullo stipendio è emerso che i laureati di bell’aspetto guadagnano il 2,4% in più, con un aumento di stipendio annuo medio di circa 2.500 dollari. Le persone attraenti, inoltre, hanno il 52,4% di probabilità in più di ricoprire posizioni lavorative prestigiose 15 anni dopo la laurea. «L’aspetto esteriore non influenza solo l’inizio della carriera, ma anche il suo sviluppo. L’effetto della bellezza nei contesti professionali è persistente e cumulativo» ha detto l’autore della ricerca Nikhil Malik. Insomma, la bellezza paga. Letteralmente.

Ripensare la definizione di “bellezza” e di “successo”

Beauty Pays è, non a caso, il titolo del libro in cui l’economista Daniel Hamermesh, già 14 anni fa, spiegava il perché di questi vantaggi. Me lo racconta Chiara Piazzesi: «Tendiamo ad attribuire alle persone più attraenti una serie di qualità morali – competenza, affidabilità, professionalità – che le rendono socialmente più desiderabili. Una specie di profezia che si autoavvera, basata sulla categorizzazione delle persone in funzione della loro bellezza percepita. Naturalmente questo meccanismo è anche fondato sul fatto che non siamo considerati tutti attraenti allo stesso modo: una diseguaglianza senza la quale il privilegio della bellezza non esisterebbe».

Constatare che la bellezza è predittiva di una vita piena e appagante ci impone quantomeno di riflettere su cosa intendiamo per “bellezza” e cosa per “vita piena e appagante”. La sociologa statunitense Kjerstin Gruys ha scritto a riguardo delle righe interessanti che allargano la prospettiva: «L’attrattività incide sul successo, ma questo ha importanza soltanto se la nostra definizione di successo è legata al denaro e allo status. La bellezza non è un forte indicatore della soddisfazione di vita. Decenni di ricerca socio-psicologica ci dicono piuttosto che il più grande indicatore della felicità umana è la qualità delle relazioni sociali. In altre parole, se vuoi essere più felice e soddisfatto della tua vita, dovresti impegnarti a migliorare la salute delle tue relazioni, non l’aspetto del tuo corpo».

Sì, il pretty privilege esiste ancora

Anche di fronte a queste riflessioni, però, non si può fare a meno di ribadire che le disuguaglianze e le discriminazioni basate sull’apparenza sono un dato di fatto. E tali rimangono, ancora, nel nostro presente. Restituisco la parola a Chiara Piazzesi: «Ci sono diverse ragioni sociologiche per cui la bellezza oggi è ancora più influente sulla traiettoria sociale delle persone, e soprattutto delle donne, rispetto per esempio agli anni ’70.

La prima è il fenomeno della “estetizzazione del lavoro”: negli ultimi decenni la promozione dei servizi e dei prodotti è sempre più incentrata sull’estetica. Di conseguenza, ai lavoratori è richiesto di “incarnare” il carattere del marchio o della compagnia per cui lavorano non solo dal punto di vista dell’atteggiamento, ma anche dell’apparenza fisica. Che acquisisce così un’importanza maggiore tra le qualifiche del lavoratore e della lavoratrice.

La seconda trasformazione sociale che ha accresciuto l’importanza dell’apparenza è l’enorme diffusione dei social media come piattaforme di espressione personale e di networking professionale. Nei social più popolari le persone si raccontano attraverso immagini create appositamente e condivise con altri utenti per creare un’impressione, una narrazione, un’identità. L’apparenza è quindi cruciale per comunicare chi si è, cosa si è capaci di fare, chi si può essere».

Qui stanno la declinazione attuale del pretty privilege e la necessità di riconoscere le discriminazioni basate sull’aspetto esteriore. «Possiamo sviluppare la capacità di mettere in discussione giudizi e categorizzazioni a cui ci siamo inizialmente lasciati an dare sulla base dell’apparenza delle persone» aggiunge la sociologa Chiara Piazzesi.

La bellezza può essere anche nostra alleata

La sfida, tuttavia, non è solo riconoscere l’impatto del pretty privilege, ma farlo tenendo anche a mente che la cura e la consapevolezza della propria esteriorità possono diventare uno strumento di empowerment e di autoespressione. Attraverso il make-up, la skincare o la cura dei capelli, conosciamo noi stesse e ci valorizziamo. Osserva Piazzesi: «Le donne che ho intervistato per il mio libro traggono piacere dalla cura di sé e socializzano attraverso la bellezza. Essere apprezzati per il proprio aspetto è piacevole e dà una sensazione di benessere. La soluzione non sta quindi nel rifiuto categorico del linguaggio della bellezza fisica per esprimere la propria identità, piuttosto nella consapevolezza critica dei suoi costi, delle ingiustizie socio-economiche su cui si basa e che alimenta, della forza dei pregiudizi che sulla bellezza si fondano». Cosa possiamo fare, dunque, nel concreto? «Un piccolo passo avanti potrebbe essere smettere di incentrare i complimenti e le critiche che rivolgiamo agli altri, in loro presenza o in loro assenza, sull’apparenza fisica» riflette Chiara Piazzesi. «E smettere di pensare che la prova più importante a cui dobbiamo sottoporci prima dell’estate sia quella costume».

Effetto alone: la ragione psicologica alla base del pretty privilege

Ti è mai capitato di trovarti per la prima volta davanti a una persona attraente e di attribuirle in automatico altre qualità – gentilezza, onestà, intelligenza – senza sapere se le possedesse o meno? È il cosiddetto “effetto alone”, un bias cognitivo per cui tendiamo a valutare un oggetto o una persona sulla base di un suo solo tratto. È così che l’effetto alone dà forma alle prime impressioni e influenza le nostre scelte, col rischio di indurci in errori di valutazione.