Un mese fa in molti, dalla sera alla mattina, siamo diventati “smart worker per decreto”. Nel migliore dei mondi possibili (quello che più o meno prevede la legge del 2017 sul lavoro agile) si dovrebbe partire attrezzati dal punto di vista tecnologico, organizzativo e psicologico, e adottare la modalità smart solo per qualche ora o giorno alla settimana. Ma questa emergenza durerà mesi, e non viviamo nel migliore dei mondi possibili.
Abbiamo scoperto presto che la banda larga risulta troppo stretta o che essere sempre soli è disorientante o che, attorno al tavolo della cucina, stanno appollaiati figli di diversa taglia, marito, moglie con uno spazio vocale conteso da prof e colleghi tutti vocianti su diverse piattaforme di call. Tanto che ormai si parla di “home working” o “remote working”, diciture dalle pretese più modeste però più realistiche. Ma, al di là dell’onomastica, quello che dobbiamo ancora capire è cosa stia raccontando di noi donne, e a noi donne, il modo in cui siamo lavorando.
Fatichiamo a conciliare impegni professionali e domestici
Una prima fotografia viene da un sondaggio di Valore D, l’associazione di imprese che si impegna per l’equilibrio di genere e la cultura inclusiva nelle organizzazioni: 1 donna su 3 ora lavora di più, contro 1 uomo su 5. «Abbiamo raccolto la voce di 1.300 lavoratori con vari ruoli e di tutti i livelli organizzativi. Come ci aspettavamo, le donne faticano a conciliare impegni professionali e domestici» dice Barbara Falcomer, direttrice generale di Valore D. «Questo “extreme working” denuncia che in molti casi non c’è stata una redistribuzione dei carichi di lavoro in famiglia, particolarmente necessaria perché ci si ritrova senza aiuti in casa, siano colf, baby sitter o talvolta badanti».
Del fatto che le dinamiche casalinghe si rivelino fattore cruciale è convinta anche Fabiana Palù, coach freelance e consulente sullo smart working per Niuko, società di formazione di Confindustria Vicenza: «Una conoscente mi ha detto: “Non vedo l’ora di tornare in ufficio perché almeno lì l’orario di lavoro finisce”. E un’altra che fa la social media manager mi ha rivelato: “In questo periodo ho mollato la mia attività, seguo la famiglia. Lascio che sia mio marito a fare smart working perché lui guadagna di più”. Il modo in cui lavoriamo oggi è la cartina di tornasole di quello che era il modello di famiglia preesistente al coronavirus: si regge meglio là dove già prima le opportunità professionali e la distribuzione dei carichi domestici era paritaria».
Il nodo sta nella capacità di negoziare. «Come far rispettare, per esempio, il mio bisogno di concentrazione se devo occuparmi sempre io dei bambini e della casa?» domanda Laura Zanfrini, ceo della società di consulenza di ZaLa Consulting e docente di Happy Hour 24 di 24Ore Business School. «Con l’attitudine femminile del “mi immolo pur di tenere sotto controllo tutto” il rischio burn-out è serio. Ma la famiglia è la prima palestra in cui riconoscere ed esercitare i propri diritti».
Puntiamo sulle nostre soft skills
Certo, adesso è difficile aver la lucidità per reimpostare l’organizzazione domestica. Come evitare di vivere in apnea? «In un mese abbiamo affrontato una somma di cambiamenti che di solito richiedono anni. Ci aiuta esercitare varie forme di agilità psicosociale, in cui siamo già brave» suggerisce Laura Zanfrini. «Dai discorsi che sento in questi giorni, mi rendo conto che di solito un uomo è meno abituato a gestire la situazione se gli spunta un figlio dietro il pc mentre lui sta parlando con il suo capo». Non solo. «Sono convinta» aggiunge Falcomer «che, tanto ora quanto nel periodo complesso che ci aspetta dopo, il contributo delle donne sia fondamentale, prezioso per le soft skills che esprimono, quali resilienza e capacità di collaborare».
Prepariamoci a nuove richieste di flessibilità
Se le doti empatico-manageriali ci possono aiutare dentro casa, come ci riaccoglierà il mondo (lavorativo) là fuori? «Il coronavirus colpisce in modo trasversale e globale, ma non illudiamoci che le sue conseguenze sociali saranno neutrali dal punto di vista del genere» avverte Renata Semenza, professoressa di Sociologia economica e del lavoro all’università degli Studi di Milano e autrice con Anna Mori di Lavoro apolide (Feltrinelli).
«I gruppi più fragili pagheranno di più, e le donne lo sono: il 50% di loro non ha un’occupazione o ce l’ha in nero. Laddove l’home working sta funzionando, è possibile che le aziende lo tengano in piedi anche superata l’emergenza. Il rischio, però, è che applichino questa formula contrattuale prevalentemente alle donne. Sarebbe un cosiddetto “privilegio handicappante”, ovvero quella che appare una situazione favorevole – conservi il posto e segui i figli – ti ghettizza: resti isolata dai colleghi, hai meno possibilità di carriera».
Le imprese possono usare il lavoro da remoto come strumento di flessibilità, con diverse conseguenze: «Davanti a una grande crisi c’è il pericolo che alcune posizioni possano trasformarsi in tagli o contratti precari. Le aziende più lungimiranti potrebbero invece cogliere l’opportunità per conciliare le loro esigenze di flessibilità con quelle di work-life balance dei dipendenti».
Quanto siamo diventati “agili” in italia
«Tramite una ricerca realizzata l’anno scorso con Doxa abbiamo calcolato che 570.000 persone in Italia facevano smart working» dice Fiorella Crespi, direttore dell’Osservatorio smart working del Politecnico di Milano. «Preciso che quel dato si riferiva ad aziende con più di 10 dipendenti e lasciava fuori tutte le partite Iva. Fare un quadro preciso è ora impossibile perché è una realtà ancora in forte evoluzione. Di certo, le aziende che avevano già implementato forme di lavoro agile lo hanno esteso a molti o a tutti i dipendenti e anche alcune piccole e medie imprese si stanno attrezzando. La stessa Pubblica amministrazione, settore con una forte presenza femminile, ha adottato forme massicce di smart working, soprattutto per quanto riguarda ministeri e Regioni».