E così, tutti a casa causa coronavirus. A fare uno smart working che smart nella maggior parte dei casi non è. Le aziende lo hanno avviato di fatto, spesso in fretta e furia nel giro di un weekend, mentre gli economisti parlano di gigantesca opportunità. Ne siamo sicuri? Perché forse, vivendolo come lo stiamo vivendo, potrebbe trasformarsi in un boomerang, capace perfino di farci tornare indietro, all’odiata timbratura, perdendo così quel minimo vantaggio che oggi potremmo aver conquistato.
La tecnologia è ancora un limite
Avevamo pensato che il lavoro agile e intelligente avrebbe potuto trasformare le nostre vite, e adesso che lo stiamo facendo un po’ tutti (così ci piace dire, perché la parola telelavoro pare brutta, ma di questo in realtà si tratta), ci accorgiamo che ci vorrebbe una rivoluzione copernicana, mentre siamo fermi alla rivoluzione industriale. Ok, siamo ottimisti: agli anni Novanta, come ci dice Andrea Solimene, esperto di smart working e fondatore di Seedble, società che accompagna le aziende verso il cambiamento. «La verità è che molte aziende sono state costrette a tenere i dipendenti a casa a lavorare, ma questo non è automaticamente smart working. Stiamo affrontando uno tsunami con un ombrellino da 2 euro, con schemi mentali e strumenti che appartengono a 30 anni fa. Oggi invece del fax mandiamo le mail, ma in molte aziende non si è andati oltre. Non siamo coscienti – e questo ancora prima del coronavirus – di cosa stia succedendo e di come lo stiamo gestendo. La pandemia sicuramente è uno shock, ma almeno ci mette di fronte alla necessità del cambiamento. Oggi le persone stanno semplicemente cercando di trovare il modo per poter lavorare da casa: c’è chi non ha neanche il pc, chi non ha la connessione, chi non può accedere a certi file o server perché i file non sono in cloud. Le limitazioni tecnologiche sono ancora tantissime».
Il pc in rete non ci rende smart
Ma non è solo un pc ben collegato che rende il nostro lavorare da casa un vero smart working. Solimene, esperto di innovazione digitale, ci spiega che «Il lavoro agile è un concetto e una filosofia del lavoro e non si improvvisa in una settimana. Occorre preparazione, programmazione, condivisione di obiettivi, una nuova cultura della leadership, una riorganizzazione degli spazi. Si tratta di una rivoluzione organizzativa che impone una revisione dei ruoli, degli organigrammi, delle mansioni e soprattutto dei comportamenti. Responsabilizza i singoli, impone loro di relazionarsi in modo diverso, di gestire il tempo in modo diverso, di muoversi su un orizzonte “imprenditoriale”, dove ci si misura sugli obiettivi e sulla gestione di progetti. Non si tratta insomma di “smarcare on line le proprie pratiche da casa”, si tratta di abbracciare un modo completamente diverso di lavorare».
Se è imposto, non è smart
Molti italiani invece in questi giorni hanno tutt’al più abbracciato i faldoni di carta, gli archivi e gli schedari con tutto il materiale che serviva e se li sono portati a casa. Altri hanno abbracciato il computer di lavoro, trasportando monitor e tastiera nel weekend perché non dotati di portatile. Tutti pronti a diventare smart, chi da una vera scrivania, chi da un angolo del salotto, per poi scoprire che i più smart sono quelli che un posto alla fine non ce l’hanno, nomadi che migrano di volta in volta dalla cucina, dopo aver lasciato lo studio a uno dei figli, al divano durante l’ora della preparazione dei pasti. Perché già, il lavoro da casa non si improvvisa. Occorre anche uno spazio (minimamente) dedicato.
Oggi in molti stiamo facendo il telelavoro
Peccato che nel concetto dello smart working il posto di lavoro non è dove vai, ma ciò che fai. Si dice anche che il miglior posto di lavoro non sia più un posto, perché è diventato un obiettivo. Siamo pronti, soprattutto noi 40-50enni? Ancora no, tant’è che a noi, che facciamo il vecchio telelavoro (quelli di noi che riescono), in questi giorni l’ufficio alla fine manca, perché per noi il luogo di lavoro è quello, fatto anche della necessaria socialità, dello scambio di vedute e battute con i colleghi. E ci manca anche perché lavorare da casa non è stata una scelta condivisa. «Alla base del lavoro agile c’è la libertà. Libertà di scegliere di lavorare nelle modalità, tempi e posti più funzionali al raggiungimento degli obiettivi. Quindi l’imposizione forzosa e prolungata ne snatura l’essenza». E se lo dice lei, che ha 28 anni e ci parla suo malgrado da casa, ci crediamo. È Maria Vittoria Mazzarini, esperta di smartworking di Methodos (altra società specializzata nelle strategie aziendali del cambiamento), costretta come tutti noi a fermarsi tra le quattro mura, lei che da casa già ci lavora, «ma quando lo decido io, concordandolo. Se ci si trova di punto in bianco proiettati in una dinamica di lavoro a distanza, non è detto che la situazione sia tanto “smart”: processi non definiti, tecnologie non note o che fanno le bizze, poca dimestichezza con gli strumenti. Inoltre il “vero” smartworking non è mai 7 giorni su 7, e nemmeno è la forma di prestazione di lavoro prevalente (se non per alcune figure particolari). Le strutture vanno preparate, le persone dotate della necessaria tecnologia a cui vanno accompagnate. Solo così si può apprezzare, dall’una e dall’altra parte, la straordinaria opportunità che offre questa modalità. Altrimenti si rischia solo di subire gli aspetti negativi del lavoro a distanza».
La convivenza forzata a casa non è così smart
Insomma, chiamiamolo smart working quando davvero lo è, quando non siamo costretti a gestire contemporamente i figli, anche loro in lontananza forzata da scuola, o i genitori anziani. O la spesa, le faccende di casa, le incombenze, che sbrigavamo anche prima, ma in un tempo organizzato tra l’uscita e il rientro a casa. Quando non ci si ritrovava tutti in famiglia, coniugi compresi, in questa convivenza forzata che vacanza non è, per nessuno, ma rischia anche di diventare un “non tempo per il lavoro”. Chiamiamo quello che stiamo vivendo oggi “telelavoro”, senza confonderlo con lo smart working che in Italia è adottato – con soddisfazione reciproca – dal 58 per cento delle grandi imprese, dal 18 per cento delle PMI e dal 16 nella pubblica amministrazione. In questi giorni i palazzi di Vodafone, Allianz, Generali, Fastweb e Sky sono deserti nelle sedi del nord, ma le aziende sono attive. Ciò può farci solo ben sperare, perché secondo l’Osservatorio del Politecnico di Milano il modello di smart working può portare a un incremento di produttività del 15 per cento. Ci fidiamo e ci crediamo, anche se il nostro sistema è ancora in alto mare. Non possiamo però non cogliere, in questa frattura epocale di un “prima” e un “dopo”, l’opportunità che ci viene data: che almeno le nostre aziende aggiornino il loro sistema operativo, come facciamo con gli smartphone.