Neanche stavolta ce l’abbiamo fatta. Neanche la gigantesca macchina dei soccorsi imbastita a Totalan – vera opera di ingegneria civile – è stata sufficiente per salvare un bambino. Lì 13 giorni fa era caduto in un pozzo artesiano il piccolo Julen, di due anni e mezzo, ormai diventato un po’ anche figlio nostro: della Spagna e di tutti noi che in questi giorni cercavamo notizie e brandelli di speranza. Per 13 giorni 300 uomini hanno lavorato giorno e notte in turni da 100, una collina è stata sbancata, elicotteri hanno portato cariche esplosive, e poi sono arrivati loro, i minatori, otto uomini che già avevano realizzato salvataggi eroici. E a loro tutti ci siamo aggrappati.
Invece è andata come l’altra volta. E con una fitta allo stomaco, la mente di tutti noi è tornata alla nostra infanzia color seppia, alla tragedia di Vermicino, quando il piccolo Alfredo Rampi – per tutti noi Alfredino – morì a 80 metri di profondità dopo quasi tre giorni di tentativi per salvarlo.
Trivelle, speleologi, ingegneri, sonde, telecamere, tunnel paralleli, terra che frana, fango: per noi italiani, il copione che è andato in scena in Spagna, purtroppo era già noto. E mentre guardavamo le immagini che trasmettevano i live blog, youtube e molti siti di notizie spagnoli – con il via vai di ruspe, camion e cumuli di terra – un brivido ci attraversava perché nella memoria di ognuno di noi riviveva l’Italia in bianco e nero di quasi 38 anni fa: il presidente Pertini con le cuffie nelle orecchie mentre parla con Alfredino; il comandante dei vigili del fuoco che col megafono lo tiene sveglio per 24 ore, chino all’imboccatura del buco infernale; Angelo Licheri, nero di fango, estratto dal pozzo come in una Pietà del Novecento, un mucchietto di ossa rannicchiato in braccio ai vigili del fuoco, i lineamenti stravolti dai 45 minuti passati nel tunnel con le mani scivolose del bambino tra le sue; e poi le telecamere della Rai piazzate davanti all’apertura del tunnel, una bocca spalancata sull’abisso proprio come quella di Malaga.
Chissà se il piccolo Julen sarà per i nostri figli quello che fu per noi Alfredino, un’icona della nostra infanzia: la canottierina a righe che tutte le mamme ci mettevano d’estate, le sue manine sui fianchi, i capelli un po’ lunghi e il sorriso distratto di chi sta per scappare dalla macchina fotografica del papà perché ha troppo da fare. Anche noi avevamo tutti da fare quell’inizio estate del 1981, ma per la prima volta l’Italia si paralizzò davanti alla televisione che da quei giorni aprì un capitolo inedito, la diretta del dolore: 18 ore di non stop a reti unificate da Vermicino.
Nessuno di noi – eravamo in 21 milioni lì a guardare – avrebbe mai saputo dov’era questo Vermicino, ma da allora tutti lo collochiamo nella geografia dei nostri anni come un punto di snodo. Quel giorno, in quel campo spelacchiato come tanti altri nella campagna laziale, siamo tutti diventati più grandi. La realtà – con il suo carico di tragedia – ha fatto irruzione nelle nostre vite protette: non avevamo i social, avevamo pochissima tv, il mondo per noi era delimitato dal nostro modesto raggio d’azione fatto di casa, scuola, amici, sport. E invece il pianto di Alfredino che arrivava soffocato dai 60 metri di buio ci ha tutti portati all’improvviso lì, in quello stesso momento in cui accadeva, qualsiasi cosa stessimo facendo. Io ricordo che a scuola – frequentavo le medie, con il grembiule nero abbottonato davanti come ogni ragazza – la professoressa arrivò con la radio, la mise sulla cattedra e ci mettemmo tutti lì, attorno a lei, ad ascoltare la diretta con le lacrime agli occhi e lo straniamento nel cuore.
Oggi, dobbiamo ammetterlo, la notizia della tragedia di Julen non ha avuto lo stesso impatto mediatico. Si è un po’ persa tra i mille Tg, le dirette del pomeriggio, lo streaming online e la massa di notizie che nel frattempo ci hanno raggiunto, a volte trafitto, altre solo lambito. Moltissime distraendoci solo in parte da quello che stavamo facendo: in fondo, ormai siamo abituati al chiacchiericcio sottotraccia di tv, smartphone e pc. Però oggi forse sì, almeno un momento siamo stati costretti a fermarci e a sollevare lo sguardo dal nostro cellulare. E siamo tornati tutti lì, con il nodo in gola, a quella canottiera a righe e a quelle fossette sulle guance.