Ai tempi dello smartphone, tutti possiamo diventare vittima di qualche hacker. Salvo poi trasformarci anche noi (sai che rivincita…) in spie del web. Pensiamo, nel nostro piccolo, alle app “parental control” per monitorare i nostri figli: ci permettono di guardare dove sono, leggere le loro chat su WhatsApp, vedere cosa stanno scaricando dalla rete.
Ma siamo sicuri che vogliamo davvero spiare i nostri figli?
Io l’unica volta che ho messo le mani nella borsa di una delle mie figlie, mi sono ripromessa che non ci sarei cascata più. Figuriamoci guardarle il cellulare (attenzione, oltretutto, che usare le app “spione” è illegale). Quel giorno, con quella patetica intrusione, ho semplicemente avuto la conferma che aveva iniziato a fumare. Niente di così grave, certo, in fondo fa del male solo a se stessa. Ma avere la riprova dei miei sospetti è stato come ricevere una bastonata: mi sono sentita tradita e invecchiata, ho visto la fine dell’età dell’oro e il prorompente, complicato inizio di un’altra fase della mia – della nostra – vita. Però ho anche capito che lei era cresciuta, che ormai era un’adolescente che alla mamma non dice più tutte “le sue cose”. Una persona con una doppia vita e delle zone d’ombra inaccessibili.
Alla fine, le ho fatto intendere che sapevo per certo che mi mentiva. E questo le è bastato per provare il giusto imbarazzo.
Da quella volta, sa che posso arrivare a sapere. Ma non voglio spiare
Non voglio spiarla perché, se mai lo scoprisse, so che perderei la sua fiducia. Ho semplicemente deciso di tenerla d’occhio al modo vecchio dei miei genitori: lasciandomi guidare dall’istinto materno, nutrendo i giusti sospetti quando penso ce ne sia motivo, facendo ogni tanto qualche blitz a sorpresa. Mia mamma, ricordo, quando eravamo piccoli ci diceva che aveva un occhio speciale dietro la testa. E che con quell’occhio vedeva tutto. Io mi sentivo controllata a distanza, ma con la libertà di scegliere e fare. E soprattutto sbagliare.
Mi chiedo, oggi, da cosa pensiamo di dover proteggere i nostri ragazzi, trasformandoci in segugi del web. E allora, quando il figlio controllato esce il sabato sera con i suoi amici, come possiamo sapere cosa fa, cosa fuma, cosa beve, chi frequenta? Sarebbe come controllare l’incontrollabile. Senza contare il paradosso: prima facciamo di tutto perché i ragazzi abbiano amici, relazioni, socializzino. Poi vogliamo supervisionare cosa succede nel loro spazio intimo, privato, segreto. Con il rischio di venirne travolti, senza capire, fraintendendo, costruendo scenari catastrofici. Perché la loro vita virtuale non combacia – per fortuna – con quella reale.
Eppure dovremmo saperlo, noi genitori, che messaggi e foto non sono dei reportage
Tutto ciò che eventualmente trovassimo sui loro cellulari andrebbe codificato, interpretato, contestualizzato. Per questo, mi son detta io, meglio non guardarli. Quelle volte in cui l’ho fatto, mi sono allarmata, non ho capito, ho interrogato facendo finta di non avere visto, ho ricevuto risposte chiare ma sempre ho realizzato che il gioco non vale la candela, che tutto ciò che viene scritto appartiene davvero a una sfera in cui noi genitori è meglio non entriamo. Com’era ai nostri tempi per il diario chiuso col lucchetto.
Per questo mi sono persuasa che sia meglio seguire la strada che ho imboccato quando le mie figlie erano piccole, all’insegna della fiducia e del dialogo. Certo, a volte sembra che il dialogo non serva, che siano solo tante parole al vento, almeno a guardare nel breve periodo. Ma la fiducia invece no, quella serve a noi e a loro, per farli crescere. E perché se noi crediamo in loro, loro credono in se stessi.
Penso che l’importante per noi genitori sia fare dei continui tentativi, cercando di allentare sempre più il cordone ombelicale e lasciando che i nostri ragazzi facciano i loro sbagli. La cosa che dico sempre alle mie figlie – e con cui mi consolo – è questa: “So che sbaglierete, vi chiedo solo di pensare a me quando avrete bisogno di aiuto”.