Scusate se parlo ancora di Olimpiadi, ma è difficile trovare nell’arsura agostana una sorgente altrettanto prodiga di riflessioni. Riprendo da dove avevo messo il punto la settimana scorsa: «Come se per fare un campione, fin da bambini, non ci volesse l’assidua, quotidiana frequentazione con la sconfitta». È successo che, in questi Giochi, per la prima volta, a fare la storia non siano state solo le vittorie e le sconfitte, ma i ritiri. Uno per tutti: quello della campionessa americana di ginnastica artistica Simone Biles. Grazie alla quale oggi sappiamo cosa sono i twisties, ovvero un complesso fenomeno mentale per cui l’atleta perde il senso della sua posizione nello spazio, rischiando di farsi molto male.
Nel coro di elogi verso il suo gesto, si fanno notare alcune voci critiche che forse esprimono il retropensiero di molti. E cioè che la salute mentale sia il paravento dietro cui nascondere l’errore, il calo di forma fisica, il risultato non arrivato. Ritirarsi per non perdere. E torniamo così al tema della sconfitta, che, secondo commentatori, tifosi, gente comune, sarebbe essa stessa il demone degli atleti. Come scrivevo la settimana scorsa, io penso l’esatto opposto: e cioè che un campione sia tale proprio in virtù della grande confidenza con la sconfitta. La competizione è il motore di ogni sportivo, nonché l’essenza stessa dei Giochi olimpici. Quando sentiamo dire a un atleta che non riesce a reggere la competizione, ci sta raccontando il sintomo, la conseguenza del suo male, non certo la causa. Trovare, indagare, curare la causa è ciò che ogni federazione dovrebbe fare.
La causa può risiedere nella specificità della storia di ognuno – violenze subite, relazioni interrotte, depressione – oppure nella tossicità di
un sistema in cui ci si ritrova intrappolati. Quello che bisogna fare è considerare la mente come il primo muscolo da allenare e curare in un atleta. Ammettendo la possibilità che, per un infortunio della mente, si possa essere fuori gioco per mesi, anni, proprio come per un tendine rotto. Lo ha detto Federica Pellegrini, a proposito della Nazionale femminile di nuoto. E lo ha detto un altro grande nuotatore, Michael Phelps, che ha lottato a lungo contro la depressione: «Spero che questa sia un’opportunità per iniziare a dare il giusto peso alla salute mentale degli atleti».
L’esempio di Simone Biles e di tutti coloro che hanno avuto il coraggio di mostrare le proprie ferite invisibili legittimerà molti altri a farlo. Questo non ci porterà, come alcuni temono, ad avere meno campioni, ma forse qualcuno in più. Perché se Marcell Jacobs quelle ferite interiori, che nulla avevano a che fare con lo sport, non avesse avuto il coraggio di ammetterle a se stesso e di affrontarle con l’aiuto di un’esperta, oggi l’Italia intera non conoscerebbe il suo nome e non starebbe festeggiando il primo, storico oro olimpico italiano nei 100 metri.