Assediare, offendere, diffamare, minacciare o spaventare una donna con strumenti non tradizionali – attraverso  Facebook e gli account social di suoi familiari e colleghi – è una forma di stalking. È quindi un reato grave e può costare il carcere, oltre all’obbligo di risarcire i danni. Lo ha sancito la Cassazione, ratificando un principio che sembra scontato e sacrosanto, ma non lo è o non per tutti.

Gli “ermellini” si sono pronunciati in relazione ad un caso concreto, ambientato in Lazio. Un uomo relativamente giovane (classe ’86) per anni ha bombardato di messaggi e di post la ex ragazza e poi i suoi cari e i colleghi di lavoro. L’assedio tramite Facebook è continuato anche quando lei lo ha bannato, cercando di far cessare la persecuzione: è proseguito sulle pagine social di altre persone e con post pubblici.

La condanna e le tesi difensive (poi smontate) dell’imputato

L’accusato è stato condannato a 10 mesi di reclusione e al pagamento di un anticipo di 5mila euro. La sentenza è stata da lui impugnata davanti alla Cassazione, sostenendo che non si trattava di stalking perché a suo parere non era stato dimostrato che la vittima avesse sofferto di un perdurante stato d’ansia e fosse stata costretta a cambiare abitudini di vita, le condizioni previste dal codice per stabilire la sussistenza del reato. Non solo. Il molestatore ha provato a ribaltare la colpa sulla molestata, accusandola di avergli comunicato il proprio numero di cellulare e di aver avuto con lui “numerosissime conversazioni” telefoniche.

Dato valore alla denuncia della vittima

I supremi giudici hanno respinto le argomentazioni difensive e hanno confermato la condanna, addebitando all’imputato il costo della causa, le spese legali della controparte (2.500 euro) e il versamento di 2.000 euro alla Cassa delle ammende. Alla denuncia della giovane donna è stata data la massima considerazione. Nella decisone finale ha pesato anche la valutazione data allo “stato di ansia, tensione e paura, indotto nella vittima, in considerazione peraltro del lungo arco temporale (oltre sette anni) in cui il predetto ha posto in essere il comportamento persecutorio che ha impedito alla persone offesa  di svolgere una vita normale, anche sotto il profilo delle relazioni personali, insinuando la paura che nelle ore di relax all’improvviso si materializzasse l’imputato”.

La ragazza, diversamente da quanto sostenuto dall’accusato, “è stata costretta a modificare le proprie abitudini di vita, ricorrendo spesso all’aiuto di amici per farsi accompagnare a casa, temendo le intrusioni del persecutore, costretta ad installare un blocco in entrata nelle chiamate in arrivo dei propri apparecchi telefonici ed a giustificare continuamente, presso i propri contatti anche di lavoro, le continue intrusioni diffamatorie del molestatore su social network”.

Il parere dell’avvocato penalista

L’avvocato torinese Giulio Calosso, al fianco delle vittime in molte cause, evidenzia altri aspetti della sentenza, di interesse collettivo:  «Questa sentenza della Corte di Cassazione consente di fare il punto su una serie di aspetti molto interessanti del reato comunemente chiamato “stalking”, ma che secondo il codice penale italiano è definito “atti persecutori”. Dopo aver ricordato che lo “stalking” è un reato abituale (cioè si realizza quando lo stalker si rende responsabile di una pluralità di minacce o molestie, mentre non è sufficiente un solo episodio), i supremi giudici precisano che la condanna è possibile a condizione che la condotta persecutoria produca nella vittima almeno uno dei tre tipi di danno individuati dalla stessa legge: 1) un perdurante e grave stato di ansia o di paura; 2) un fondato timore per l’incolumità propria, di un prossimo congiunto o di una persona al medesimo legata da relazione affettiva; 3) un’alterazione delle abitudini di vita».

“Ecco i punti forti della sentenza”

Gli effetti negativi degli atti persecutori, continua l’avvocato Calosso, «ovviamente devono essere provati in giudizio, il che può avvenire anche sulla base delle semplici dichiarazioni della persona offesa, perfino prescindendo dall’espletamento di una perizia medica e dall’accertamento di un vero e proprio stato patologico. La Cassazione ha infatti voluto puntualizzare che ‘lo stato di ansia e di paura’ può essere dimostrato anche sulla semplice base di massime di esperienza e che è sufficiente che gli atti persecutori abbiano un effetto destabilizzante della serenità e dell’equilibrio psicologico della vittima, senza la necessità che sia riscontrata una malattia psicologica».

Infine, mette in luce sempre il penalista torinese, gli ermellini «hanno chiarito che, nell’ipotesi in cui lo stalking avvenga tra ex partner, il reato non è escluso anche se durante il periodo delle persecuzioni la vittima ha vissuto momenti transitori di riavvicinamento con l’ex e di attenuazione del malessere,» considerato che «l’ambivalenza dei sentimenti provati dalla persona offesa nei confronti dell’imputato non rende di per sé inattendibile la narrazione delle afflizioni subite». 

In aumento gli atti persecutori online

Nel caso specifico sottoposto al giudizio della Cassazione, altra considerazione dell’esperto, «le minacce e le molestie avvenivano per via telematica, come sempre più spesso capita. Attraverso i social network oppure attraverso le più comuni applicazioni di messaggistica, si realizza oramai un altissimo numero di reati di stalking. Anche perché  i “leoni da tastiera” confondono la libertà del web con una garanzia di impunità. Questi soggetti devono essere disillusi».

“Denunciare sempre”

Per tutti, e per le donne in particolare, c’è un consiglio: «Bisogna denunciare, sempre, senza avere paura. Il termine per presentare querela è di 6 mesi. La pena è stata aggravata con il Codice rosso, l’insieme di norme che tutela le vittime di reati di genere  e crea corsie preferenziali per il trattamenti dei reati. Oggi è prevista la reclusione da 1 anno a 6 anni e 6 mesi». Le persone oggetto di stalking – così come di maltrattamenti in famiglia, violenze sessuali, mutilazioni genitali… – dal 2013 hanno un aiuto in più: a prescindere dal reddito, e dopo aver fatto denuncia, possono essere ammesse al gratuito patrocinio, cioè avere l’assistenza legale gratuita.