Poche ore per creare un organo. Non è una magia, ma quello che succede in alcuni centri di ricerca americani, dove vengono “prodotti” fegati, bronchi, ovaie e tessuti in materiali biocompatibili. Tutto questo grazie alla stampante 3D. Una tecnologia nata nel 1986 grazie a un ingegnere che strizzava l’occhio all’industria e che ora diventa alleata della salute per una medicina sempre più personalizzata ed efficace.
Negli Usa, il mercato del settore supera il miliardo di dollari, con una crescita annua del 30%, come sottolinea il rapporto SmarTech analysis. E anche nel nostro Paese siamo all’avanguardia.
Sembra fantascienza, ma è già realtà
Il presente è “freschissimo”. «In Italia, e siamo i primi in Europa, abbiamo appena redatto le Linee guida per l’utilizzo di questa tecnologia, che è già realtà in una decina di strutture» spiega Alice Ravizza, ingegnere medico e responsabile scientifico delle Linee guida. «Le stampanti 3D nella maggior parte dei casi vengono utilizzate per la pianificazione chirurgica: si creano modelli anatomici di parti del paziente così il chirurgo li studia, simula l’intervento e si esercita in tagli e movimenti. È un lavoro d’équipe: c’è grande collaborazione tra radiologi che forniscono le immagini, ingegneri biomedici che realizzano il modello e chirurghi. Un’altra applicazione riguarda la creazione di vere protesi o di parti come vertebre, costruite su misure per la persona».
Un’idea che sembra fantascienza, ma che invece è già realtà: basta varcare le porte dell’Istituto ortopedico Rizzoli di Bologna. Qui lavora il dottor Alessandro Gasbarrini, Direttore del reparto di Chirurgia vertebrale a indirizzo oncologico e degenerativo, e “papà” delle vertebre 3D in titanio. «Servono per la ricostruzione della colonna dopo la resezione vertebrale, ossia quando vengono asportate una o più vertebre per trattare un tumore. Per offrire al paziente le migliori possibilità di guarigione, in alcuni casi rimuoviamo l’intero tratto malato di colonna, che poi però dobbiamo ricostruire visto che fa da sostegno del tronco. È un intervento molto complesso: ogni operazione va adattata al singolo perché non esistono due tumori uguali. Allora, perché puntare ancora su protesi prodotte in serie? Quelle 3D sono davvero personalizzate. È come vestire un abito di sartoria, tagliato su misura. Finora le abbiamo usate su 23 persone e i risultati sono eccellenti».
La tecnologia viene offerta dal Sistema sanitario nazionale
L’altra buona notizia, poi, è che la tecnologia viene offerta dal Sistema sanitario nazionale. Il paziente, in pratica, non paga nulla. Ma è un modello sostenibile? «Solo la stampante costa dai 30.000 ai 100.000 euro, a cui si aggiunge il lavoro del team che realizza e usa le protesi» precisa l’ingegnere Ravizza. «Sono interventi molto costosi, tanto che gli ospedali cercano partnership con start up e centri di ricerca. Ma bisogna guardare il rapporto costi-benefici: si riducono fino a un terzo sia le ore in sala operatoria sia il ricovero del paziente. Quindi l’investimento si ripaga in fretta».
Lo sa bene Maurilio Marcacci, responsabile del Centro per la ricostruzione articolare del ginocchio dell’Irccs Humanitas di Milano, che ha impiantato la prima protesi al ginocchio interamente stampata in 3D. «Ha un costo leggermente superiore, ma è fatta con un metallo resistente, che dura molto di più. Soprattutto, è ricostruita seconde le misure del ginocchio del malato, quindi è unica e perfetta: non dà disturbi, il paziente si riprende prima e ritorna velocemente a una qualità della vita ottima. Prima di entrare in sala operatoria, noi ci affidiamo anche all’intelligenza artificiale, un software che prepara l’intervento in ogni dettaglio. Il domani è questo».
A proposito di futuro, le novità sono parecchie. «Una delle direzioni verso cui ci stiamo muovendo» conclude il dottor Gasbarrini «è quella delle ricostruzioni completamente biologiche, che utilizzano come materiale il tessuto osseo animale e umano».
Una protesi creata con la stampante 3D è come un abito di sartoria. E per il malato vuol dire riprendersi prima e meglio
LA STORIA
Con la mia schiena bionica ho sconfitto il tumore
«Sono una donna bionica». Francesca si presenta così e la sua non è una battuta. Ha 35 anni, vive in provincia di Roma dove fa la maestra della scuola materna e 5 anni fa le è stato diagnosticato un tumore maligno delle ossa. «Stavo giocando con i miei alunni quando mi sono infortunata. La radiografia ha evidenziato una macchia alla prima vertebra lombare. Era un cordoma, un tumore raro che può portare alla paralisi, quindi mi hanno indirizzato al Rizzoli di Bologna, dove ho conosciuto il dottor Gasbarrini. Lui mi ha proposto una protesi in titanio, creata con la stampante 3D. Me lo ricordo come fosse ieri, che mi spiega i dettagli con un sorriso pieno e precisa che “quel piccolo aggeggio così carino” mi avrebbe ridato la vita di prima: avrei recuperato più in fretta, sentendo meno dolore.
E così è stato. Sono andata in sala operatoria a febbraio, a settembre sono tornata al lavoro. Ora il cancro non c’è più e la mia schiena è come nuova. Chi subisce operazioni di questo tipo rischia di avere poi una mobilità limitata, di non riuscire a compiere alcuni movimenti. Io sto sistemando la casa dove presto andrò a vivere con il mio fidanzato e mi sono iscritta a un corso di musical. Abbiamo portato in scena Il Re Leone. Sono una leonessa anche io. Bionica».