«Mamma, lo guardi con me il film su Cucchi?» mi dice il 16enne di famiglia abbonato a Netflix, la piattaforma tv che ha prodotto Sulla mia pelle, pellicola oggetto di ovazioni e polemiche. La richiesta di mio figlio mi inorgoglisce, perché con il procedere della sua adolescenza si assottigliano i momenti di svago in comune. E mi stupisce, tanto che me ne esco con un supponente: «Ma tu come la conosci la storia di Stefano Cucchi?». Lui mi spiega: «Ne parla Tedua (cantante rap, ndr). In Wasabi freestyle dice “non c’è pace per Cucchi”. Quando l’ho sentito ho fatto qualche ricerca per capire chi fosse». Non guardiamo il film la sera dell’invito inaspettato: ci prendiamo un paio di giorni, quasi un respiro prima di una prova difficile in cui so che starò in apnea.
Quando decidiamo di affrontare Sulla mia pelle, cerco ancora di addomesticare l’ansia
«Vediamolo per 10 minuti» propongo. «Se non ci piace o è troppo duro, smettiamo». Mentirei se sostenessi che tanti scrupoli servono a proteggere solo mio figlio. Ma non c’è niente che ci distragga dallo schermo dopo che parte il racconto degli ultimi 7 giorni di vita del geometra 31enne arrestato a Roma il 15 ottobre 2009 per detenzione di stupefacenti e morto il 22 ottobre nel reparto protetto dell’ospedale Pertini (sull’intricata vicenda giudiziaria che ne è seguita vedi box a lato). Rimaniamo inchiodati con lo sguardo sul viso tumefatto di Stefano Cucchi (interpretato da uno straordinario Alessandro Borghi), indignati per la sua richiesta inascoltata di avere l’avvocato di famiglia anziché quello d’ufficio, inermi di fronte alla sua voce che via via si svuota come il suo corpo.
Per 100 minuti mio figlio non sfiora il cellulare e non commenta
Solo una volta spezza il silenzio: lui che non è mai entrato in tribunale si ritrova un tribunale che entra nella sua stanza. Ripete ad alta voce: «La legge è uguale per tutti». Quella dichiarazione solenne gli esce scandita con il suono di una promessa disattesa. Mentre scorrono i titoli di coda, per scacciare le lacrime mi appiglio alla recita dei doveri serali: «È tardi, fai lo zaino, vai a dormire». Mi zittisce: «Mamma, ascolta: ora è lui (il vero Cucchi, ndr) che parla». In sottofondo di nuovo l’udienza per la convalida dell’arresto, che a me pare identica alla scena già vista. Ma quando interviene la giudice, si sente che è diversa. Sui titoli di coda proprio la voce di Stefano Cucchi chiude una storia che nella realtà è ancora aperta. Mentre le nostre voci nella stanza si liberano in un incalzare di domande. «Ma perché lui ha rifiutato il cibo e non beveva?» chiede mio figlio. «Ha ricevuto le cure dovute?» aggiungo io. E continuiamo: «Perché tanti hanno accettato la versione secondo cui i lividi sul suo corpo erano stati causati da una caduta dalle scale?». «Perché i familiari non sono più riusciti a vederlo mentre era ricoverato?». Con il processo ancora in corso non è il momento delle risposte definitive, e chissà se tutte quelle attese arriveranno. L’ultimo commento, prima di andare a dormire, lo fa mio figlio: «Questo film è bello. Non vedi sferrare pugni o calci, però resta in te come un pugno forte, piantato nello stomaco».
7 anni di processi
La storia di Stefano, grazie alla battaglia promossa dalla sorella Ilaria Cucchi, è la più nota tra quelle sui presunti abusi delle forze dell’ordine in carcere. In 7 anni di processi (iniziati nel marzo 2011) c’è stato un altalenarsi di condanne e assoluzioni del personale medico e degli agenti di polizia penitenziaria presenti nell’ultima settimana di vita di Stefano Cucchi. Il processo bis, in corso, è partito il 13 ottobre 2017 in seguito al rinvio a giudizio di 5 carabinieri. Le accuse: omicidio preterintenzionale, calunnia e falso. La prossima udienza si terrà il 27 settembre.