C’è un ostacolo che frena l’aumento dell’occupazione femminile in Italia, oltre al modello familiare che le vuole responsabili della crescita dei figli e dell’accudimento degli anziani. Ed è il loro curriculum di studi. Sono anni che si susseguono campagne affinché le ragazze intraprendano carriere scientifiche e tecnologiche. Eppure le aziende che operano in questi settori, le più sane e in crescita, e che tra l’altro hanno come obiettivo quello di aumentare la presenza femminile, non trovano abbastanza donne da assumere. Come mai? Perché siamo ancora a questo punto?

Ho un piccolo osservatorio in casa, nutrito da lunghe conversazioni al tavolo della cena. Contesto: tredicenni di fronte alla scelta della scuola superiore. Due tipologie umane presenti. Da una parte, i ragazzi che hanno un’idea di lavoro in testa («Farò la chirurga, il prof, l’astronauta, l’ingegnera, il cuoco») e scelgono sulla base di quell’idea, che probabilmente cambieranno, ma che appare finalmente libera da stereotipi. Dall’altra parte, tutti gli altri, gli indecisi, ovvero la maggioranza, a cui appartiene anche mia figlia. Non ha una visione di sé da grande, il suo orizzonte è molto ravvicinato, i prossimi cinque anni da vivere al meglio. Sa di odiare la matematica anche se le riesce facile, come tanti suoi compagni indecisi maschi. Non ha nessuna voglia di immergersi nelle lingue antiche, come tanti suoi compagni indecisi maschi. Farà, come loro, una scelta di default. Solo che il default maschile è lo scientifico, il tecnologico, le scienze applicate, il default femminile è il classico, il linguistico, le scienze umane.

Lo “Stem gap” ce l’ho davanti agli occhi. E mi accorgo che è qualcosa di molto profondo se questa ragazzina, cresciuta in una famiglia dove non sono mai esistiti lavori da maschio o da femmina, dove si gioca alle costruzioni tanto quanto alle Barbie, dove si fa coding da quando si sa leggere e scrivere, continua ad avere in testa un certo default. Dovrei dirle che, benché le strade siano ancora tutte aperte dopo le superiori, la percentuale di chi intraprende facoltà scientifiche e tecnologiche dopo aver fatto studi classici è comunque molto bassa, quindi sì: è una scelta di vita anche questa. Dovrei dirle che bisogna decidere cosa studiare anche sulla base di come si configura il mercato del lavoro, perché la mia generazione è rimasta impigliata dentro l’illusione “Studia ciò che ti appassiona”. Dovrei dirglielo ma non lo faccio, perché questa è l’età in cui ci definiamo anche scegliendo in contrapposizione a ciò che dicono i nostri genitori. Così continuo a conversare per ore e a pensare che abbiamo tanto tanto lavoro da fare.

Ben venga, dunque, il manifesto promosso da Fondazione Bracco “Mind the Stem gap”, che all’ultimo punto recita: «Superare gli stereotipi è una dura sfida, su cui è importante lavorare collettivamente, coinvolgendo tutta la comunità che partecipa all’educazione dei più giovani» (ne parliamo qui). Fino a oggi abbiamo lavorato bene sui sogni e sulle aspirazioni, allargando gli orizzonti delle possibilità. Ora ci tocca un compito più arduo: riscrivere il default, che ha radici profonde e più complesse da dissotterrare di quanto immaginiamo.

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