Ci siamo. L’incubo è iniziato.
Il bikini mi guarda dal letto con un’evidentissima espressione di sfida.
È il mio magic moment: la prova costume.
È l’ora della verità per tutti: ma per chi indossa evidenti chili di troppo è veramente una disfatta di Waterloo.
E passi che si cerchino costumi camuffanti i rotolini e i rotoloni, e passi che questi siano maniglioni antipanico anzichè maniglie dell’amore, ma quello che non riesce mai a passare sono gli sguardi: il mio e quelli altrui.
Da abbondante obesa sentivo sussurrare, più o meno a bassa voce, frasi tipo: “Se continui a mangiare così diventerai come lei!” oppure simpatici “Se entra quella, il mare si svuota”. Dimagrendo speravo che questo cicalare avrebbe avuto fine, ma la mia seppur ambita ed ambiziosa taglia 48 lasciava trasparire che gli occhi altrui non mi avrebbero lasciata. E non per fischi di approvazione.
Ho lavorato tanto su di me, ho letto, ho scritto, ho parlato, ma ci sono scogli che non riesci mai a superare del tutto.
E uno dei più alti e aspri è proprio quello della continua ricerca di approvazione. È la speranza di sentirsi in pace con se stessi e con le proprie esuberanze, ma passando sempre per il giudizio di terzi.
Non sono una curvy, perchè le mie curve sono tutte dove non dovrebbero, non sono più obesa, ma non sono magra.
Sono in quel limbo che veniva definito “sovrappeso”, parola che oggi pare quasi un anatema e, secondo alcune correnti di pensiero, va mitigata con altri termini più dolci: donna morbida, diversamente magra, giunonica e chi più ne ha, più ne metta. Ma non cambia nulla: ho chili di troppo. Punto. E, oggi, mentre il bikini mi guarda fissamente la cellulite, mi sento solo grassa. E pure depressa e pure triste e pure arrabbiata.
Ma a che serve? Tanto il tempo passa, il sole è già alto e la spiaggia mi attende.
Che faccio?
Posso permettere alle mie paure di vincere, ancora una volta?
E quindi via: indosso il costume, spostando lo slip in continuazione, come in preda ad un attacco parkinsoniano, tentando di coprire con 20 cm quadri di tessuto, un’area di ciccia di forma incerta.
Lo specchio non mi dice le parole rincuoranti che vorrei, ma mi rimanda l’immagine di una donna che non ha nulla di cui vergognarsi. Di una donna che tenta di amarsi e di posare bagagli di ansie ataviche.
Allora vado, mi metto un pareo, scendo in spiaggia e mi sorrido.
Perché questo sorriso me lo merito. Perché ogni persona merita di volersi bene.
E se il bambino in spiaggia riderà e additandomi mi chiamerà cicciona io gli dirò: “Smettila o mi siedo sopra di te”.
Le madri sono avvisate.