«La storia dell’omosessualità è una storia che interessa tutti e tutte». Potrebbe sembrare una provocazione, o un’espressione a effetto per richiamare l’attenzione nel mese del Pride, o ancora la risposta a chi rifiuta il ddl Zan. È invece la frase che Maya De Leo, docente al Dams di Torino, usa per spiegare le ragioni del corso di Storia dell’omosessualità che dal 2017 tiene ogni anno a oltre 100 ragazzi e ragazze. 47 anni, da 20 si occupa di queste tematiche: prima con la tesi di dottorato in Storia all’università di Pisa «sulle rappresentazioni dell’omosessualità tra ’700 e ’800», poi con un contratto di insegnamento di Storia di genere all’università di Genova. «Infine è arrivata questa grande opportunità a Torino che all’epoca, nel 2017, mi ha dato un po’ di notorietà perché era la prima volta che appariva la parola omosessualità nella dicitura di un corso».
Non sono mancate le polemiche, ma la risposta dei giovani è stata calorosa: il suo è un corso frequentatissimo («quest’anno gli iscritti sono 150»), anche da studenti provenienti da altri corsi di laurea. Ragazzi e ragazze che non necessariamente appartengono alla comunità LGBT+. «Lo so perché me lo dicono all’esame. Alcune ragazze mi hanno confessato che parenti e amici hanno chiesto loro: “Perché frequenti quel corso se sei etero?”. In realtà, attraverso questa storia si studia il modo in cui sono state disciplinate le sessualità, le identità di genere. Si comprende come in un determinato contesto siano nati i profili normativi di maschile e femminile e come vengano costruiti attraverso la cultura. Vedere come tutti questi elementi cambino fa riflettere».
Il corso è diventato anche un libro, Queer, appena uscito per Einaudi e già in ristampa dopo una sola settimana
Un volume ricchissimo di fonti e testimonianze che traccia una storia, a partire dal 1700, di secoli di inquadramento ed emarginazione, di sfide, di balzi in avanti verso il riconoscimento delle “diversità” e di sprofondamenti verso l’abisso dell’invisibilità e della persecuzione. In copertina c’è una foto emblematica: ritrae un famoso locale della Parigi degli anni ’20, il Monocle. Era frequentato da donne che lì potevano indossare abiti maschili e lasciarsi andare a effusioni, in un’epoca in cui la sottocultura “queer” (termine che si usa per definire tutto ciò che non rientra dentro ai parametri della cosiddetta “normalità” in materia di genere e orientamento sessuale) era considerata una manifestazione della modernità.
La storia prosegue con la repressione durante il fascismo, il nazismo e la seconda guerra mondiale. E poi, correndo in avanti, ci sono gli anni ’50 con la eterosessualità obbligatoria e i centri di recupero, la svolta con i percorsi di liberazione nei ’60, la piaga dell’Aids, fino agli anni 2000 in cui si parla di intersezionalità. «Il libro è nato proprio dall’esigenza didattica» mi spiega la docente. «Perché i testi in italiano sono molto pochi. Mancava un volume di respiro più generale che raccogliesse non solo la storia, ma anche tutta la riflessione LGBT+ che ormai ha più di 30 anni (l’uso dell’acronimo LGBT, lesbiche, gay, bisessuali e trans, si diffonde a partire dagli anni ’90, ndr). Il libro raccoglie ricerche e rielaborazioni che ho seguito io, ma restituisce anche molto di quanto già fatto da altri e da altre a livello internazionale. È un arricchimento della storia in generale».
La cosa che l’ha più sorpresa, mi racconta, è la curiosità degli studenti. «Mi chiedono approfondimenti, libri in più da leggere, bibliografie. Hanno fame di conoscenza, che non è così usuale in un corso di laurea. Da parte della comunità LGBT+ c’è l’esigenza di riconnettersi con un passato che è percepito come il proprio, di riscoprire una storia che è stata censurata, di riappropriarsene». Non solo: «Chi viene per i temi LGBT+ poi si appassiona al metodo storico. E questo mi rende orgogliosa».
«Il mio approccio è presentare i generi e la sessualità come prodotti culturali» continua Maya De Leo
«Mostro come cambiano nel tempo, nei diversi contesti geografici e storici. Spiego che non c’è una natura a cui siamo ancorati o ancorate. Le cose cambiano sempre. E oggi ci sono delle crepe nel sistema binario maschio/femmina. Ci sono soggettività che emergono e che mettono in crisi questo sistema». Perciò scatta la repressione. Dopo la crisi economica del 1929, per esempio, le soggettività LGBT+ non sono più un esotico intrattenimento ma «vengono associate ai processi “disordinati” e ingovernabili della nuova economia, con i suoi “eccessi” che mettono in pericolo l’ordine “naturale delle cose”» scrive De Leo. Un po’ come succede oggi con il ddl Zan, che prevede l’estensione dei reati d’odio per discriminazione razziale, etnica o religiosa a chi compia discriminazioni verso omosessuali, donne, disabili. «Come dicono i movimenti LGBT+, è il minimo sindacale, eppure anche questo suscita scenari di confusione, di paura sociale».
Ma, le chiedo, al di là dell’università, a cosa serve una storia dell’omosessualità?
«Serve perché racconta di persone del passato che hanno vissuto, amato e dato il loro contributo alla società. E poi perché la questione dei generi e della sessualità ha avuto un ruolo centrale nel passaggio dall’età moderna a quella contemporanea. Dopo il crollo delle società basate sul ceto, arriva una nuova attenzione alle politiche demografiche, e il cardine diventa il binarismo maschile/femminile attorno al quale costruire le identità di cittadini».
Non solo: «Il genere è il terreno primario di articolazione dei rapporti di potere. Quindi anche il razzismo, l’abilismo o le differenze di classe possono entrare in gioco. Insomma il quadro è molto complicato. Per questo si usa anche il termine intersezionalità per descrivere come i diversi elementi sono connessi». La sua aula è frequentata anche da persone trans, mi racconta. «E su di loro ora c’è una narrazione mediatica veramente pesante. Certe cose che si dicevano sulle persone omosessuali negli spogliatoi negli anni ’80, ora colpiscono loro. Sono le stesse retoriche che ritornano, riassemblate in modalità nuove e con nuove finalità. Una narrazione tossica, la chiama lei: «Aggressioni quotidiane che ricevono dalla lettura dei giornali, dai notiziari, dai social».
Il mese del Pride si celebra a giugno per ricordare i Moti di Stonewall,
gli scontri tra gruppi di omosessuali e polizia a New York iniziati il 28 giugno del 1969 e considerati il momento di nascita del movimento di liberazione gay. Celebrazioni come questa, ma anche film e serie tv non aiutano ad abbattere certe barriere? «Sono un segnale che le persone LGBT+ sono capaci di farsi ascoltare e che il pubblico generalista è capace di seguire e di apprezzare queste storie e questi personaggi. La moltiplicazione e la differenziazione delle rappresentazioni aiuta, però non basta perché spesso c’è una separazione tra la politica, la cultura mainstream, e il mondo reale».
Per concludere le chiedo quale sia il messaggio che possiamo ricavare da queste riflessioni. «Che il mondo è complesso, che la storia non è lineare, che il genere è ovunque, è il terreno sul quale si articolano i rapporti di potere, come dicevo prima, ma anche una griglia attraverso la quale noi vediamo e percepiamo il mondo. Oggi tutto viene filtrato e normato attraverso la lente del maschile e femminile: gli abiti, gli oggetti, i comportamenti… E quindi è meglio studiare almeno un po’ la storia per capire come mai è così».
In libreria
Si intitola Queer. Storia culturale della comunità LGBT+ (Einaudi) il volume di Maya De Leo che racconta, attraverso documenti e testimonianze, una storia che va dal 1700 ai giorni nostri per spiegare il ruolo della sessualità dalla formazione degli Stati-Nazione ai totalitarismi, dalla crisi dell’Hiv alla rivoluzione queer degli anni ’90.