«Nessuno si era accorto di niente. Ci dobbiamo stupire di questo, non del fatto che la violenza sia intorno a noi. La violenza esiste, la crudeltà pure, oggi più che mai. Anche in quelle che continuiamo a chiamare, non si sa bene in base a cosa, le famiglie del Mulino Bianco. Ancora non ci siamo chiariti sul fatto che non esistano famiglie perfette?». Non cerca la mediazione Paolo Crepet, psichiatra e sociologo.

Lui che di ragazzi si occupa da sempre, anche nell’ultimo libro Mordere il cielo. Dove sono finite le nostre emozioni (Mondadori), analizza con precisione la strage di Paderno Dugnano, 50.000 abitanti a Nord di Milano, tra sabato 31 agosto e domenica 1° settembre. «In una villetta di periferia, in un luogo dove il male non sembrava mai essersi affacciato prima, all’improvviso ecco la tragedia: un figlio apparentemente perfetto ammazza i genitori e il fratello» riflette Crepet. «Ma questa carneficina non è accaduta dal niente» puntualizza.

Strage di Paderno: i segnali passati in sordina

«I ragazzi di oggi disseminano migliaia di segnali intorno a loro, dentro di loro, ma noi adulti non siamo in grado di decifrarli. Sempre più spesso ci convinciamo che per intraprendere un rapporto con i propri figli sia necessario solo accontentarli economicamente, magari proteggerli dalle difficoltà della vita e della scuola. Ma questo è assurdo! Creare un canale di comunicazione reale con i propri ragazzi vuol dire mettere a fuoco i loro bisogni profondi, che non possono essere quelli mutuati dai suggerimenti dei social network o dall’acquisto compulsivo di ciò che domandano. Esiste una forma di connessione intima che deve essere recuperata e la cui mancanza forse è stata alla base di questa tragedia. Dal mio punto di vista i segnali c’erano, semplicemente non sono stati compresi. Il malessere profondo dell’omicida è stato forse ignorato, forse non attenzionato. Ed è questo quello che ci deve spaventare per davvero».

Che cosa ci fosse nella mente del giovane assassino, un 17enne descritto come studioso e introverso, non è dato saperlo. Le indiscrezioni evidenziano solo che Riccardo, questo il nome del ragazzo, subito dopo la strage abbia ammesso: «Mi sentivo un corpo estraneo alla famiglia, sentivo un disagio e ho pensato che eliminandoli tutti mi sarei liberato anch’io: un minuto dopo ho capito che non era così». E poi: «Quel disagio lo covavo da tempo con pensieri di morte, ma non pensavo di uccidere la mia famiglia, questa cosa l’ho pensata quella sera».

E se il fenomeno non fosse isolato?

Al momento la testimonianza del giovane pare avere numerosi punti da chiarire: uno su tutti, il movente, che agli inquirenti sembra ancora molto esile, se non del tutto incomprensibile. Al contrario, la dinamica pare essere quella confessata: prima avrebbe infierito sul fratello, che dormiva in camera con lui, e poi in successione avrebbe accoltellato la mamma e il papà, arrivati in soccorso del 12enne. «Quando avevo il coltello in mano ho iniziato, e da lì ho deciso di non fermarmi perché pensavo che sarebbe stato peggio» avrebbe spiegato.

Secondo i primi accertamenti, 68 coltellate avrebbero sterminato in pochi minuti la famiglia Chiarioni ed è impossibile non far andare la mente alle stragi familiari della recente storia italiana: dal delitto di Novi Ligure (era il 2001 quando la 16enne Erika De Nardo uccise con il fidanzato Omar la madre e il fratellino) ai più remoti omicidi compiuti da Ferdinando Carretta (che nel 1989 sterminò la sua famiglia a Parma) e da Pietro Maso (che nel 1991 uccise i genitori a Montecchia di Crosara, in provincia di Verona).

Una lezione per tutta la società, tutte le famiglie

«Da questa vicenda emerge ancora una volta la mancanza totale di empatia della nostra società, in cui si è frantumata la famiglia. Ormai anche la comunità è solo un ricordo. La gente vive isolata, nutrendosi solo di social network e di superficialità. Sopravviviamo come anestetizzati in un’epoca di conflitti, emergenze e terrore. Tutto sembra spingerci a una precarietà co- stante e di fronte a ciò spesso reagiamo con due modalità: la negazione, che ci rende indifferenti, oppure la paura, che ci paralizza. Riccardo ha spiegato di essersi sentito solo dentro la sfera della famiglia, che veniva raccontata sui social fra scatti sorridenti e vacanze felici in giro per l’Italia. A dimostrazione di come il nostro tempo sia segnato da una solitudine collettiva, dove crediamo di conoscere gli altri e invece ne ignoriamo ogni aspetto» continua Crepet.

Nel caso di Riccardo, i parenti e gli amici si sono detti allibiti e hanno spiegato che mai avrebbero potuto anche solo sospettare le intenzioni del ragazzo. «I pensieri che ha avuto il giovane sono probabilmente quelli bestiali che molti di noi hanno in testa e che in pochi fortunatamente portano a termine» sospira Crepet. Poi prende tempo, spiega come la gestione delle emozioni, quelle positive e negative, sia centrale per l’esistenza e come forse sia la chiave di lettura anche di questa vicenda.

Strage di Paderno: prevenire si può, con l’ascolto

«Se non mettiamo i ragazzi di fronte alla sfida del voto, di cosa significa ottenere un risultato, positivo o negativo, li priviamo della possibilità di sviluppare emozioni complesse. Riccardo, che veniva considerato in famiglia un genio della matematica, aveva avuto dei problemi proprio in questa materia, dove era stato rimandato. Chissà che cosa avrà provato. Pare che non ne abbia mai parlato con nessuno, a dimostrazione di una solitudine assoluta. Non mi stancherò mai di dirlo: le emozioni devono essere allenate. Ma per farlo bisogna saperle affrontare. L’empatia è la chiave per uscire da questo stato di insensibilità in cui siamo precipitati. E per frequentarla dobbiamo diventare audaci, conquistando la sfrontatezza chi non ha paura di sentirsi vivo».

Crepet sorride, con gli occhi chiari che hanno un guizzo: «Non mi chieda però un decalogo sulle cose da fare, perché non esiste un bignamino dei sentimenti. Ogni caso è unico, ma se devo dare un suggerimento generale è semplice: occorre stare attenti alle emozioni e ai cambiamenti dei propri figli».