Questo articolo è la terza puntata della collaborazione tra Donna Moderna e The Submarine, il magazine online che si occupa di storie urbane, cultura, musica e tecnologia. Periodicamente pubblicheremo, sia sulla carta che online, contenuti ad hoc pensati insieme e scritti dalla redazione di The Submarine in esclusiva per il nostro giornale.
Ci concentreremo in particolare sul web, sulle sue novità e su come, pur non essendone il responsabile, sia diventato il veicolo di una serie di comportamenti a rischio: dal voyeurismo allo spaccio di stupefacenti sempre nuovi, dal cyberbullismo alla diffusione delle fake news. Leggi anche le puntate precedenti, dedicate rispettivamente al dark web e al revenge porn.
Mai così tante serie tv
A settembre di quest’anno l’episodio finale della settima stagione di Game of Thrones – l’acclamata e seguitissima serie fantasy prodotta dal network americano HBO – ha accumulato, nel giro di tre giorni, quasi 1 miliardo di visualizzazioni illegali attraverso portali di serie tv in streaming o download pirata. Per mettere i numeri in prospettiva basta pensare che la stessa puntata, sui canali ufficiali della rete televisiva, ha totalizzato poco più di sedici milioni di spettatori. Bricole se messi a confronto con il pubblico del web. Questo enorme divario che separa il pubblico televisivo tradizionale da quello nativo di internet, abituato a fruire film e serie tv in maniera spesso illegale attraverso siti di streaming online, si è intensificato con l’aumento delle produzioni televisive — sempre più diffuse e sempre più varie. Solo nel 2015 sono passate sui canali americani, i maggiori produttori di serie tv, 417 sceneggiature adattate per il piccolo schermo, mentre nel 2017 si prevede di raggiungere quello che gli esperti definiscono il peak Tv, il picco televisivo, con più di 500 serie prodotte in un anno. In prima fila in questo flusso di contenuti televisivi è l’agguerrito Netflix, con 71 serie pubblicate sul proprio sito e accessibili a un bacino di 100 milioni di utenti in tutto il mondo.
Quando e perché nascono i “subbers”
Sono proprio la saturazione televisiva e l’evoluzione di internet ad aver prodotto negli ultimi decenni una sottocultura web dedicata esclusivamente alla diffusione e gestione delle serie tv piratate. L’offerta ha dovuto mettersi in pari con la domanda, poiché l’idea di poter trovare sul web, gratuitamente, qualsiasi tipo di contenuto televisivo e cinematografico è ormai entrata nella nostra quotidianità. Come oggi si accede a Netflix per vedere la nuova stagione di Stranger Things, così si cercano siti pirata per trovare l’ultima puntata di Game of Thrones. Tra le numerose realtà che ruotano attorno ai meccanismi dello streaming online, le comunità dei fansubber, i protagonisti del web che producono i sottotitoli per le serie tv in streaming, sono una delle più attive e delle più ambigue, poiché si districano in una penombra legale tutt’altro che scontata. In Italia il fenomeno, ampiamente diffuso soprattutto tra ragazzi e studenti, ha raggiunto numeri da capogiro, con redazioni di fansubber composte da centinaia di persone e forum seguiti da migliaia di utenti. Per quanto i fansubber abbiano raggiunto una certa fama al di fuori dei propri canali solo negli ultimi anni, la loro genesi precede internet. Negli anni Ottanta, mentre in Italia spadroneggiavano Ken il guerriero e L’Uomo Tigre, in America le associazioni di telespettatori costringevano i network alla rimozione di tali cartoni, ritenuti inappropriati per il pubblico statunitense.
Tra cartoni giapponesi e telefilm per adolescenti
La radicale censura apportata nelle televisioni americane promosse involontariamente la nascita, all’interno dei college americani, di gruppi di cultori degli anime che, in maniera amatoriale e spesso artigianale, producevano copie pirata dei cartoni nipponici, sottotitoli compresi. La procedura rimase per molti anni costosa e complessa a livello tecnico, limitando la diffusione dei materiali piratati; quello che però nacque da questa esperienza fu l’idea che un collettivo di persone potesse decidere di non rispettare le scelte del mercato e operare a favore della diffusione di un contenuto, come fan e per i fan. Solo i veri fan di un cartone o serie tv infatti potevano affrontare con solerzia la macchinosa operazione di pirateria pre-internet: procurarsi una copia originale del video, trovare il testo originale, tradurlo, sovrascrivere i dialoghi e sincronizzarli su una videocassetta, il tutto senza l’aiuto di un computer di ultima generazione. L’arrivo di internet negli anni Novanta, di connessioni più rapide e di programmi di condivisione più agili, aiutò i piccoli club dei college americani a trasformarsi in vere e proprie redazioni e, agli occhi dei più giovani, in un vero e proprio fenomeno della rete. Non più nicchie americane dedicate ai cartoni giapponesi, ma anche gruppi europei dediti a serie televisive come The O.C. e Smallville.
Essere subber
Alberto, uno studente che preferisce non divulgare il suo soprannome da fansubber, ci spiega che la sua passione per i cartoni giapponesi è nata in tenera età, «come tanti ragazzi sono cresciuto con i cartoni pomeridiani di Italia 1, sfido a trovare qualcuno che non era appassionato alle partite di Holly e Benji. Oltre a Italia 1 c’erano anche 7 Gold, Tele Montecarlo, K2, tutti canali che permettevano di appassionarsi alle serie animate. Durante lo zapping mi sono trovato davanti a un episodio replica di Sousei no Aquarion, grandi robottoni che combattono in pieno stile nipponico. Da quel momento in poi ho iniziato a fare ricerche online fino a trovare i siti di fansubber. E da lì c’è stata una crescita esponenziale di opere che ho cominciato a vedere, belle e brutte». Indagando all’interno del mondo dei sottotitolatori clandestini colpisce infatti la natura del loro mestiere, spinto più di tutto da una passione per la traduzione e per le opere a cui i sottotitoli vengono applicati. «Inizialmente vedevo questo hobby come un semplice esercizio per migliorare la padronanza della lingua, sia italiana che inglese, poi si è trasformato in una passione. È entrata nella routine delle mie giornate e oltre ad essere stata un’attività educativa mi sono divertito molto e mi ha permesso di conoscere molte persone di tutti i tipi» continua Alberto.
Itasa e Subsfactory, le più grandi community italiane
In Italia la maggior parte dei traduttori ruota intorno a due luoghi di aggregazione virtuale: Italiansubs, più comunemente conosciuto come Itasa, e Subsfactory. Quest’ultimo, nato intorno al 2006, è uno dei gruppi che ha allargato di più la propria comunity negli anni; nella sezione del sito che racconta la storia Subfactory si legge: «Nel fare i sottotitoli lavoriamo in team, in base a ciò che ci interessa sottotitolare ed anche delle richieste che provengono dall’utenza». L’attività del fansubber, per quanto amatoriale, gratuita e spinta solo dalla passione dell’autore, non è per niente facile. Per poter rispettare le scadenze imposte dalle distribuzioni estere, molto spesso i vari membri di un gruppo sono costretti a dedicare ore della giornata alla traduzione e al caricamento dei sottotitoli. Per questo motivo solo redazioni composte da persone che si conoscono possono sopportare tali ritmi, gruppi già affiatati in grado di competere con le tempistiche delle case di distribuzione e quindi di anticipare spesso l’uscita ufficiale delle serie americane in Europa e viceversa degli anime giapponesi in America. «I fansubber hanno avuto, nel tempo, un ruolo fondamentale nel portare prodotti esteri meno conosciuti in Italia per tutti coloro che sono interessati ma che non conoscono altre lingue, anche se spesso la maggior parte di loro opera esclusivamente nel settore dell’animazione giapponese» ci racconta Norman, anche lui studente come Alberto e fansubber indipendente che lavora con il nickname Linoxyard.
Come operano queste comunità online?
Come si muovono i fansubber per rendere disponibili i sottotitoli in così breve tempo e per un numero così vasto di serie televisive? Ogni gruppo di sottotitolatori ha al suo interno dei ruoli ben definiti, che si dispongono come all’interno di una catena produttiva. A mettere in moto l’azione è il “raw provider”, che procura il materiale grezzo (da qua il “raw” in inglese) come il video e il testo originale della serie. Il raw provider consegna i materiali ai traduttori che provvedono appunto a tradurre i testi e a consegnarli ai timer, le persone incaricate di sincronizzare la traduzione con le immagini del video. Da questa fase in poi iniziano le revisioni e l’abbellimento del lavoro: i typesetter si occupano dello stile grafico dei sottotitoli, mentre gli editor sondano i sottotitoli alla ricerca di refusi o imprecisioni. Alla fine della procedura si possono avere due tipi ben distinti di materiali, che a loro volta definiscono l’intera etica del gruppo di fansubber. Il lavoro finale di un gruppo di sottotitolatori potrà essere un “softsub” o “hardsub”, il primo definisce un file di solo testo, senza quindi la divulgazione di materiale protetto da copyright, mentre con il secondo si intende l’unione di file video ai sottotitoli. Proprio l’hardsub è ciò che spesso confonde il piano dell’illegalità con il lavoro dei fansubber, che invece nella maggior parte dei casi dichiarano il loro unico desiderio di rilasciare una versione delle traduzioni che rispecchi un’interpretazione diversa e più personale dell’opera originale, slegata quindi da qualsiasi altro materiale.
I subbers nell’era di Netflix & Co.
Negli ultimi anni però, la nascita di piattaforme di streaming legali come Netflix hanno limitato i lavori di queste comunità sempre più ristrette e limitate in quello che era il cardine principale del loro lavoro, portare in Italia quello che la distribuzione non farà mai arrivare. «I fansubber ormai sono anacronistici. Erano nati un un periodo in cui non esistevano editori italiani che portassero serie. Ora che i cartoni arrivano in gran quantità e legalmente, non ha più senso fare fansub. E questa idea è condivisa da tanti tanti altri. Sono molto i fansub che negli ultimi due anni hanno chiuso i battenti, per esempio i Supremes fansub, gruppo storico tra i più longevi nel panorama italiano» ci racconta un po’ amareggiato Alberto, che negli ultimi anni si è distanziato dalla sua passione per i sottotitoli. Daniela Samà invece, translator supervisor per lo studio di doppiaggio Dream & Dream, che adatta serie tv e animate per Netflix, TIMVISION e altri, ritiene che tradurre e adattare sia «assolutamente una professione, e non un hobby». «Io non sono contro i sottotitoli, assolutamente. Per me tradurre in qualsiasi forma è bellissimo e nobilitante» dice Samà «ma tradurre e adattare è un lavoro di gruppo, che impegna settimane. Per questo non sono d’accordo sul discorso della qualità: in Italia la traduzione e il doppiaggio sono un’eccellenza».
Gli adattamenti italiani, tra critiche ed eccellenze
Sulle cicliche critiche agli adattamenti italiani, Daniela risponde che «poteva essere una critica valida tanti anni fa, ormai chi traduce, traduce cogliendo l’essenza del prodotto originale e trasformandolo nella lingua italiana». Due esempi di due eccellenze italiane? «Certamente Vickings e The Handmaid’s Tale». Il secondo, in particolare, è stato realizzato a un ritmo serratissimo, tradotto e adattato in soli quattro giorni proprio perché la pirateria ha costretto la distribuzione italiana ad uscire il più vicino possibile alle pubblicazioni in lingua originale. Le comunità di fansubber rimangono comunque uno dei volti nascosti del web, capaci ancora oggi di incarnare lo spirito pionieristico che contraddistingueva l’internet delle origini, fatto di collaborazione fra sconosciuti e passione incanalata attraverso le nuove tecnologie. Difficile dire se questi gruppi ci saranno ancora in un breve futuro, ma a lasciare il segno sarà comunque il loro sforzo comunitario impresso sul web.