Laura Santi dice che tutte le vite hanno un prima e un dopo. Per lei “prima” era quando poteva disporre del suo corpo e ricordare quei giorni, ora, è una tortura. Laura ha 49 anni ed è malata di sclerosi multipla da quando ne aveva 24. A dividere in due il tempo non è stato l’arrivo della malattia, ma la sua evoluzione, la crudeltà con cui le ha sottratto movimenti, facoltà, forza. Da 8 anni non cammina e abita un corpo che le è diventato nemico. «Solo nei sogni respiro la vita. Al mattino torno nella mia realtà: il problema della pipì, gli spasmi, la fisioterapia, il linfodrenaggio, il male ai piedi, il senso di colpa verso mio marito che si prende cura di me». Due anni fa, assistita dall’avvocata Filomena Gallo e dall’Associazione Luca Coscioni di cui è consigliera, ha iniziato il percorso per accedere al suicidio assistito in Italia e avere una porta da aprire in caso di necessità.
Il diritto al suicidio assistito in Italia: una porta da aprire
Come quasi sempre accade in casi come quello di Laura, la richiesta ha preso vie accidentate, tra commissioni etiche, ricorsi, diffide, pareri incompleti e dinieghi. Fino alla relazione che il 14 novembre scorso ha certificato che i requisiti necessari Laura li ha tutti – non vive attaccata a un respiratore, ma le mani di chi la assiste sono un sostegno altrettanto vitale – e dunque ha diritto all’individuazione di un farmaco e di un macchinario con cui possa somministrarselo.
Avere una porta da aprire, spiega Laura, non significa che lo farai, ma ti restituisce il potere di scegliere: questo è quello che conta di più. È la più grande delle cure palliative. Significa che anche un malato gravissimo può riprendersi in mano la vita e dire «Sono io che decido», proprio come fa Tilda Swinton in La stanza accanto. «È il corpo che detta l’agenda della voglia di vivere» nota Laura. «Se qualche anno fa mi avessero chiesto “Quando pensi che vorrai morire?” avrei risposto “Quando avrò bisogno del sollevatore”. Poi quel giorno è arrivato e sono rimasta qui. Oppure avrei detto “Quando avrò bisogno che qualcuno mi pulisca perché sono incontinente”. È successo anche quello, e non ho voluto morire. Ti abitui a tutto, tranne al dolore. Spero di avere voglia di vivere il più a lungo possibile. Ma quando verrà il momento, se verrà, so che sarò io a scegliere».
Il lavoro dell’Associazione Luca Coscioni
Laura è la nona persona a ricevere l’autorizzazione alla morte assistita da quando nel 2019 la Corte Costituzionale, con la sentenza 242, ha aperto la strada al fine vita in Italia, dichiarando incostituzionale una parte del reato di aiuto al suicidio e prevedendo che l’aiuto possa essere fornito solo se la persona malata possiede determinate condizioni, verificate insieme alle modalità dal Servizio sanitario nazionale. Queste persone sono state difese da Filomena Gallo, avvocata cassazionista e segretaria dell’Associazione Luca Coscioni, con un collegio di esperti.
«Cinque anni fa, dopo la sentenza della Corte, abbiamo messo in conto che le Aziende Sanitarie fossero impreparate a gestire le procedure. Con l’Associazione Luca Coscioni abbiamo anche proposto una normativa regionale che organizzi i tempi di risposta alla persona malata previa verifica dei requisiti» spiega Gallo. «Ci aspettavamo che qualcosa cambiasse, sia nell’organizzazione sanitaria sia nella velocità delle risposte ai malati. E invece no. Laura ha chiesto di essere sottoposta alla verifica delle sue condizioni due anni fa. Sappiamo che la Pubblica Amministrazione ha tempi lunghi, ma due anni di attesa per una persona che soffre sono intollerabili».
Perché è così difficile regolare il diritto al suicidio assistito?
Le chiedo perché il fine vita resti l’unica delle grandi questioni etiche senza una legge che la regoli, mi risponde che viviamo in un’epoca in cui le libertà fondamentali della persona spaventano la politica. «La Corte Costituzionale ha invitato il Parlamento a intervenire con una legge. Ma questo non è mai successo. Di fatto, la sentenza Cappato della Consulta è oggi legge in Italia e dal 2019 sono tre le persone hanno potuto accedere al fine vita con l’aiuto. Ci sono però malati che possiedono tutti i requisiti, ma non possono farlo perché non sono nelle condizioni di autosomministrarsi un farmaco: per queste persone c’è bisogno di una legge che elimini la discriminazione di cui sono vittime. Poi ci sono Aziende Sanitarie che non risolvono la questione dei tempi di risposta.
Le norme che limitano il rispetto della persona malata risalgono al 1930. Sulla carta abbiamo libertà costituzionali riconosciute a noi tutti, ma nella pratica c’è una posizione conservatrice che mantiene il controllo della persona e limita quelle libertà». In più, mi spiega, la sentenza della Corte Costituzionale prevede che si abbia diritto al suicidio medicalmente assistito solo se si è capaci di autodeterminarsi, affetti da una patologia irreversibile che produce sofferenze che la persona reputa intollerabili e tenuti in vita da trattamenti di sostegno vitale. Ma proprio nell’interpretazione di cosa significhi “sostegno vitale” si gioca la differenza tra malati. Se sei attaccato a un respiratore, il sostegno vitale è evidente. Per chi è affetto da patologie oncologiche o neurodegenerative che non richiedono il supporto di un macchinario, invece, è più complicato.
Il suicidio assistito inizia a essere realtà in Italia, anche senza legge
«A Laura il riconoscimento dei requisiti era stato negato. Per ottenerlo ha dovuto dimostrare che, se non ci fossero altre persone ad aiutarla, non assumerebbe farmaci e morirebbe di fame e di sete, tra urina e feci. La Consulta ha dovuto dare una interpretazione ampia del concetto. Solo allora ha avuto l’ok». Anche senza una legge che lo regoli, il suicidio assistito in Italia inizia a essere realtà. Delle nove persone che hanno avuto l’autorizzazione, tre hanno deciso di somministrarsi il farmaco. Federico Carboni, marchigiano, tetraplegico dal 2010 per un incidente stradale, è stato il primo, nel 2022. Dopo di lui Gloria, in Veneto. E poi Anna, triestina di 55 anni con sclerosi multipla. A loro si aggiungono tre persone, attualmente anonime, che hanno ottenuto il via libera ma non hanno ancora potuto procedere.
Poi c’è chi, pur potendo, ha scelto di non farlo: Antonio, marchigiano tetraplegico dal 2014, e Stefano Gheller, 49enne veneto affetto da distrofia muscolare, morto per l’evoluzione della malattia nel 2024. E, ora, è arrivato l’ok per Laura. Attende invece un’autorizzazione che sembra non giungere mai Martina Oppelli, triestina di 49 anni, malata di sclerosi multipla progressiva a cui per due volte è stata negata l’autorizzazione perché, a differenza di Laura, non le è stata riconosciuta la dipendenza da trattamenti vitali. «A loro avviso mancavano tubi e cateteri» mi spiega via Zoom.
«In realtà, senza assistenza non sopravviverei. Perché mi abbiano negato un diritto che ad altri nelle mie condizioni è stato concesso non lo so. Immagino sia una questione politica e forse è anche giusto così, serve tempo per cambiare le cose. Però la mia sofferenza tempo non me ne concede. La vita è gioia e, finché riesci ad assaporarla, vai avanti. Quando però la fatica supera la gioia è giusto arrendersi prima di pentirsi di aver vissuto. Ognuno ha il suo modo di soffrire e i propri limiti, che vanno rispettati. Io il mio l’ho raggiunto nel 2018, con serenità. Ora mi affido ai legali e resto in attesa. Con l’idea che un piano B è sempre possibile. E anche un piano C».
Cosa dice la legge in Italia sul fine vita e il suicidio assistito
L’eutanasia, cioè l’atto di provocare in modo indolore la morte di una persona cosciente che ne faccia richiesta, costituisce reato: rientra nelle ipotesi previste e punite dall’art. 579 (omicidio del consenziente) o dall’art. 580 (istigazione o aiuto al suicidio) del Codice Penale. Il suicidio medicalmente assistito è invece un diritto, ma solo in determinati casi. A sancirlo è la sentenza 242/2019 della Corte Costituzionale: stabilisce la possibilità, in certe condizioni, di chiedere la prescrizione di un farmaco letale da autosomministrarsi e l’aiuto indiretto di un medico per le procedure. I requisiti necessari sono 4 e vanno verificati dal Sistema Sanitario Nazionale attraverso la ASL competente: la persona deve essere capace di intendere e volere, avere una patologia irreversibile e portatrice di gravi sofferenze fisiche o psichiche, sopravvivere grazie a trattamenti di sostegno vitale. Criterio, quest’ultimo, a cui la Consulta con la sentenza 135 del 18 luglio 2024, ha dato un’interpretazione ampia che prescinde dal grado di complessità tecnica e invasività.