11 settembre 2001: l’attentato alle Torri Gemelle

«Un attimo prima mi dicevo di stare tranquilla, che certe cose non succedono alle famiglie normali come la nostra. Ma, mentre accendevo il computer per controllare l’itinerario di viaggio di mio marito, mi tremavano le mani. Ho aperto il calendario e la vita, almeno per come la conoscevo, era finita». Per Susan Retik, 53 anni, lo spartiacque tra routine e tragedia è stato il numero di un volo aereo: l’American Airlines 11, partito da Boston alle 7 e 59 della mattina e diretto a Los Angeles. Era proprio quello di cui Susan aveva sentito parlare alla radio poco prima, quando la programmazione si era interrotta per annunciare un grave incidente aereo a New York. A bordo viaggiava Dave, il padre dei suoi figli: Ben, quasi 4 anni, Molly, 2, e Deana, che sarebbe nata 2 mesi dopo.

A un posto di distanza da lui sedeva Mohamed Atta, uno dei 19 attentatori addestrati da Al Qaeda per portare il terrore tra gli infedeli occidentali. Alle 8.46 il velivolo si è sfracellato contro le pareti vetrate della Torre Nord del World Trade Center. Diciassette minuti dopo un secondo apparecchio ha centrato in pieno il grattacielo gemello, mentre altri due voli si sarebbero schiantati a breve sul Pentagono e nella campagna della Pennsylvania.

Quasi 3.000 i morti di quell’11 settembre del 2001, «una giornata con il cielo così blu che tutti se lo ricordano ancora oggi». Sono passati 20 anni. «Stento a crederci» dice Susan. «Sembra ieri e allo stesso tempo una vita fa. Certo, se i talebani nell’ultimo mese non fossero tornati al potere, questo anniversario sarebbe più facile. Ma andare laggiù non è stato inutile: da allora sono stati fatti progressi». Anche Susan non è stata con le mani in mano. Nel 2003, insieme a Patti Quigley, un’altra donna che ha perso il marito nell’attacco terroristico, ha fondato “Beyond the 11th”, un’organizzazione umanitaria che aiuta le vedove afghane a emanciparsi. Nel 2010 ha ricevuto dalle mani dell’allora presidente Barack Obama la Citizen Medal, una prestigiosa onorificenza civile.

Susan Retik
Premiata da Obama
Susan Retik nel 2010 ha ricevuto dalle mani dell’allora presidente Barack Obama la Citizen Medal, una prestigiosa onorificenza civile.

Susan, come trascorrerà questo anniversario?

«Sarò presissima, anche perché nel 2015 Patti ha fatto un passo indietro e mi occupo io di tutto. Dal 10 al 12 settembre sarò impegnata in Beyond the Bike, una corsa in bicicletta dal Memorial Museum dell’11 settembre a New York, fino a Boston, dove vivo. La prima edizione fu nel 2003. Con me ci sarà tutta la mia famiglia. I figli miei e di Dave, ovviamente. Ma anche Donald, l’uomo che ho sposato nel 2006, e Rebecca, che abbiamo avuto insieme e oggi ha 13 anni. L’obiettivo è raccogliere più fondi possibili da mandare in Afghanistan».

Che cosa ricorda dei giorni successivi all’attentato?

«La confusione. Ma anche l’enorme supporto da parte della mia famiglia, degli amici, dei vicini di casa e di tanti sconosciuti da ogni parte d’America e del mondo. Ero circondata da persone che mi aiutavano in tutti i modi possibili. Ovunque mi girassi trovavo del cibo da congelare, un libro per bambini da colorare, mazzi di fiori e biglietti d’incoraggiamento. Era come se una luce si fosse accesa su di me. È stato quello che mi ha permesso di andare avanti nei momenti più duri».

Ha mai temuto di non farcela?

«No, perché dovevo pensare ai miei figli. Il più grande chiedeva da un po’ di giocare a Tee-ball (una versione semplificata del baseball, ndr) e proprio in quei giorni l’ho accontentato. Non potevo restituirgli il padre, ma la normalità sì. Nonostante il dolore, nella mia mente è scattato immediatamente qualcosa di potente: la consapevolezza che sarei stata di nuovo bene. Il giorno dopo la tragedia ho preso in disparte mia madre: “Ero felice prima di Dave, lo sono stata con lui e lo sarò anche senza di lui”».


«Ho scoperto che le bambine afghane non potevano andare a scuola né le donne lavorare. E le vedove spesso si ritrovavano prigioniere nelle loro case»


L’Afghanistan era lontano.

«Fino all’11 settembre non sapevo nemmeno dove si trovasse sulla cartina geografica. Quando gli Stati Uniti si preparavano a invadere il Paese, poco alla volta ho scoperto la sua storia. Le bambine non potevano andare a scuola e alle donne non era permesso lavorare, ma alle vedove come me andava anche peggio: non avendo un marito che le accompagnava fuori, come richiesto dalla sharia, spesso si ritrovavano prigioniere nelle loro case. I suoceri potevano portare via i loro figli e lasciarle per strada. A differenza mia, che con la morte di Dave avevo acquisito uno status da eroina, loro rischiavano di essere cancellate dalla società. Questa disparità di trattamento mi ha spinta a intervenire: dovevo aiutarne almeno una nella stessa misura in cui ero stata aiutata io».

Non nutriva rancore verso quel Paese culla del terrorismo islamico?

«Certo, ero triste e arrabbiata. Sono una persona molto emotiva: quello che provo mi si legge in volto. Ma nel momento in cui ho teso una mano a quelle donne rimaste sole, qualcosa in me è cambiato: la condizione di vittima si è spostata da me a loro e questo mi ha aiutata a stare meglio».

Quali progetti avete sviluppato?

«Per le afghane è sempre stato difficilissimo ottenere dei prestiti e questo impediva loro di finanziarsi un’attività o di pagare le spese mediche. Perciò il nostro obiettivo è sempre stato metterle nelle condizioni di produrre un proprio reddito. Le abbiamo sostenute nello studio o nello sviluppo di piccoli business, come l’allevamento di polli e mucche o la vendita di tappeti fatti a mano. Ma abbiamo anche creato dei programmi in cui ognuna metteva una piccola somma e con il capitale raccolto si finanziavano micro prestiti per chi ne aveva bisogno. Adesso, però, stiamo cercando di far fronte all’emergenza umanitaria in corso».

In che modo?

«Nelle scorse settimane molte vedove con figli al seguito sono scappate dai villaggi rurali e hanno cercato rifugio a Kabul, dove si sentono più sicure. Purtroppo, però, sono arrivate in città senza niente. Allora abbiamo istituito un fondo da cui attingiamo per dare loro del denaro, che possono spendere come meglio credono».

Riuscirete a portare avanti i vostri progetti nonostante il ritorno degli integralisti?

«Sono fiduciosa. Da sempre lavoriamo con organizzazioni esperte, che sono in Afghanistan da decenni. Care, tanto per citarne una, c’era durante l’invasione sovietica degli anni ’80 e poi sotto i talebani. Sanno come aggirare l’instabilità politica del Paese e sono in grado di collaborare con chiunque si trovi al potere. A chi mi chiede come aiutare, dico che non serve mandare vestiti o cibo: meglio fare una donazione a un’associazione fidata. Con il ritiro dei contingenti internazionali, la popolazione ha bisogno più che mai di denaro».

L’11 settembre del 2001 le ha portato via il suo primo amore. Le ha dato anche qualcosa?

«Mi ha offerto l’opportunità di fermarmi e chiedermi: che cosa conta per me? Oggi questa lezione è al centro del mio lavoro di leadership coaching. Ai miei clienti spiego che spesso non diamo il giusto peso alle nostre scelte. Eppure ogni giorno ne compiamo tantissime, dimenticandoci che queste decisioni, messe insieme, formano la nostra identità. Che persona vogliamo essere, allora? Possiamo coltivare in modo intenzionale la nostra umanità, ma dobbiamo esercitarla nello stesso modo in cui pratichiamo le posizioni dello yoga. Ognuno di noi, se lo desidera, può cambiare il corso della sua vita».

Anche i terroristi avrebbero potuto farlo.

«Certo. Ben prima del settembre 2001 quegli uomini avevano iniziato a prendere decisioni ispirate all’odio, fino a convincersi che dirottare un aereo fosse la cosa giusta. Ma come sarebbe andata a finire se l’attentatore che viaggiava accanto a mio marito lo avesse guardato in faccia, e anziché un nemico, avesse visto in lui un padre di famiglia?».