In Giappone è sorto un movimento per l’abolizione dei tacchi nei posti di lavoro. In questi giorni se n’è parlato molto. Mi riferisco al #kutoo, neologismo creato da una crasi tra il sostantivo kutsu, cioè scarpa e che gioca sul doppio senso con la parola kutsuu “dolore”. Il #kutoo è stato lanciato con un tweet dall’attrice Yumi Ishikawa (nella foto) che si è lamentata di essere stata costretta a indossare scarpe col tacco per ore al lavoro. Il tweet è diventato subito virale ed ha trovato l’adesione di molte donne giapponesi tanto da trasformarsi in una petizione da oltre 20mila firme. Grazie al successo ottenuto, il #kutoo è stato definito la nuova eco nipponica del movimento #metoo anche se, almeno a livello istituzionale, ha avuto vita breve. La richiesta, portata in Parlamento, è stata subito stroncata dal Ministro del Lavoro e della Salute giapponese, Takumi Nemoto, che l’ha rispedita al mittente sottolineando che “indossare tacchi alti sul posto di lavoro è necessario e appropriato”. La reazione di Nemoto ha fatto anch’essa il giro del mondo scatenando le critiche: molte testate hanno ricordato come il Giappone sia un paese in ritardo nella tutela dei diritti delle donne. Infatti, sebbene faccia parte del G7, secondo il Global Gender Gap Index del World Economic Forum il Giappone si trova al 11o posto su 149 paesi per quanto riguarda la parità dei sessi. Forbes ha anche ricordato come nessuna delle 225 aziende quotate al Nikkei sia guidata da una donna.
Perché le giapponesi non amano i tacchi
Se i dati sono incontestabili, può però esserlo la prospettiva alla quale si analizzano le cose. Perché stiamo parlando di Giappone, di una cultura molto diversa dalla nostra, una cultura che mi fa dire: ma di quale tacco stiamo parlando. Il Sol Levante è un paese nel quale la calzatura tradizionale – quella che si usa col kimono, per intenderci – si chiama geta ed è una sorta di sandalo basso infradito. Nulla a che vedere coi tacchi, insomma. Ad esempio, le eleganti signore che si vestono in abiti tradizionali, comprese quelle che lavorano nei ryōkan, le locande giapponesi, non sono costrette a stare sui tacchi perché possono calzare i ben più comodi geta. Non solo loro: in Giappone è uso togliersi le scarpe prima di entrare in un qualsiasi luogo chiuso. A casa così come al ristorante, al tempio o a scuola, spesso si sta a piedi nudi o si indossano ciabatte. Ciabatte che calzano anche gli impiegati pubblici, siano essi uomini che donne, che lavorano per esempio negli uffici comunali oppure nelle stazioni di polizia. È vero che in alcuni contesti è richiesto l’obbligo delle scarpe ma anche nel caso della lamentela dell’attrice si trattava di un tacco da 5 cm, mica del famigerato tacco 12. In Giappone più che altrove, insomma, si può evitare il tacco e trovare lavoro. Non mi pare che ci sia molto da lamentarsi, anzi.
Il #kutoo non è la versione giapponese del #metoo
E allora siamo proprio sicuri che il #kutoo abbia qualcosa a che vedere col #metoo? Studio il Giappone da trent’anni e ho vissuto a Tokyo dieci anni: non posso che rifarmi anche alla mia esperienza diretta se, dal mio punto di vista, trovo molto più sessista dover costringere una donna a mettere antiestetiche ciabatte, piuttosto che i tacchi. Fare paragoni tra sistemi culturali diversi tra loro è sempre molto azzardato. Nel caso specifico, si è tirato in ballo i maschi facendo rifermento al “cool-biz”, il provvedimento che permette agli uomini di portare camicie a maniche corte nelle afose estati giapponesi, come se gli uomini in Giappone godessero di chissà quali libertà nel dress-code. È vero che l’uomo non ha l’obbligo dei tacchi ma il loro look da ufficio è quasi sempre una divisa, un completo giacca e pantaloni che prevede poche sfumature oltre il nero, tutto l’anno. Altro che libertà. Senza parlare poi di chi deve stare sempre in cravatta. Riflettiamoci.
Credo dunque che il #kutoo sia stata un’occasione persa. Avrebbe potuto essere un modo per affrontare reali problemi sociali di discriminazione, e invece ha finito per essere liquidato con una battuta. Non tutto però è perduto. Il Giappone è un paese complesso, di regole spesso inutili ma dove cambiare è possibile.