«IL TEMPO IN CUI QUELLE COME ME LE CHIAMAVANO TRAVESTITI ME LO RICORDO». Comincia così Elena, dalle parole: perché le parole tracciano i confini del pensiero, e il pensiero può inchiodare a destini fatti di vergogna e solitudine. Ha 59 anni e fa l’avvocato, e la sua è una delle voci che state per ascoltare. Raccontano una verità condivisa: il diritto delle persone transgender alla felicità è una conquista non scontata eppure possibile, che passa attraverso la normalità di una vita libera dai pregiudizi.

A Milano il primo Registro per chi si riconosce in un altro sesso

Dice l’Istituto superiore di sanità che in Italia le persone transgender sono circa 500.000, negli anni ’80 erano 5.000. In mezzo, un lungo e faticoso processo che ha reso l’iter della transizione meno complicato: dal 2015 non è più obbligatorio sottoporsi a intervento chirurgico per ottenere il cambio di nome all’anagrafe, e il Comune di Milano sta per introdurre il registro per il riconoscimento del genere di elezione sui documenti per chi sta completando il percorso.

Troppi gli stereotipi sulle persone transgender

Un passo importante per iniziare a demolire gli stereotipi. Stereotipi come quelli che conosce Giulia, 48 anni, impiegata.

Gliulia

«Fino ai 30 ho vissuto come dentro una nebbia. Poi ho capito che promettevo al mondo qualcosa che non potevo dare: non ero un uomo anche se ne avevo l’aspetto. Ho cominciato a stare male, a non uscire più di casa, a non dormire più. Finché nel 2018, a 42 anni, ho deciso di cominciare la terapia, psicologica e farmacologica». Racconta che il suo percorso è stato, in un certo senso, semplice. «Ho fatto coming out con le persone che mi interessavano: la mia famiglia ha accettato, gli amici meno. Quando ne ho parlato in azienda, mi hanno regalato un mascara. Invece alle riunioni di condominio prima ero nell’élite che decideva, ora non conto più». Non importa, dice. «Il racconto della vita delle persone transgender è inquinato: siamo macchiette, barzellette. La gente si sente libera di farti domande sulla tua vita sessuale, chiederti se con gli ormoni ti viene il ciclo. E invece il mio desiderio è essere invisibile. Nessuno ha diritto a un pensiero su di me: non ho bisogno di un permesso per vivere la mia vita. Oggi sto bene: lavoro, gioco a tennis e ho una compagna che mi costringe a essere la migliore versione di me stessa».

Sentirsi nel corpo sbagliato è doloroso

Thalia ha 34 anni e lavora in una società di consulenza informatica.

Thalia

«Mi hanno assunta nella mia vita precedente e mi hanno concesso la carriera alias, che quando non hai ancora rettificato i documenti è importante. È un’azienda spagnola, la mentalità è aperta». Quando non lavora, scrive fumetti, porta avanti progetti di ludoterapia, ha un programma in radio e uno su Torino Web Tv, I Formidabili, dedicato alle persone con sindrome di Asperger. Ha cominciato il percorso ormonale da un anno ma, dice, trovare se stessa è stato un cammino complicato. «La transizione inizia dentro di te, è un confronto che fai con te stesso molto prima degli ormoni. Io mi guardavo e capivo che non tutto coincideva. Ma avevo avuto una diagnosi di Asperger e questo rendeva tutto più confuso perché le mie incertezze le spiegavo con la malattia. Mi guardavo e pensavo: potrebbero esserci i fianchi più larghi, potrebbe esserci il seno. Però mi dicevo: è una fase. Fregavo i vestiti a mia sorella, ma ancora non mi definivo al femminile». Oggi sì, anche se sui documenti c’è ancora il vecchio nome.

Le delusioni dagli amici, non dall’ambiente di lavoro

Elena, che ha 59 anni e fa l’avvocato, per smontare la “vecchia vita” ha aspettato di più.

Elena

«Ho cominciato il mio percorso a 52 anni. La mia famiglia ha capito, i miei clienti anche: si fidavano di me, e questo bastava. Anche in tribunale, con i giudici, è stato facile. Solo con gli amici ho avuto delle delusioni, ma le ho superate. Ero sposato con una donna meravigliosa a cui avevo raccontato di sentire saltuariamente l’esigenza di indossare abiti femminili. Lei mi ha detto: “Va bene, finché resta in casa”. Poi ho iniziato a depilarmi. Quando ha cominciato a darmi fastidio la barba ho realizzato che dovevo capire il perché di quei desideri. Ho iniziato un percorso psicologico al termine del quale ho chiarito che, se avessi voluto essere felice, la transizione sarebbe stata l’unica strada possibile». È stato doloroso, ma alla fine tutto è andato a posto. «Il peggio è quando in tribunale non sono più “avvocato” ma “signora”». Il piano sentimentale invece resta più fragile. «Le persone non sempre capiscono che cosa sono. Qualcuno mi dice: “Va bene così, però basta”. Qualcuno va avanti ma c’è sempre l’idea che una persona transgender sia portata a certe fantasie. Non è un cruccio, ma mi piacerebbe avere qualcosa di più stabile».

Il coming out in famiglia

La vita sentimentale di Diego, che ha 38 anni e fa lo spedizioniere, invece, è solida. Sta con Marta da molti anni, hanno due gatti e ogni tanto pensano a un bambino, ma Marta ha paura del parto. «Sono in transizione dal 2012. I miei genitori li ho sconvolti un po’ alla volta. A 15 anni mi sono fidanzata con un ragazzo. Quando ci siamo lasciati, ho detto a mia madre che ero bisessuale, poi che ero lesbica e poi: “Mamma, sono un uomo”». Racconta di essere andato pari passo a quello che sentiva ma anche alla mancanza di informazioni. «Di transizione da femmina a maschio non si sapeva nulla. La prima volta ne ho sentito parlare al Grande Fratello. I miei genitori mi hanno accompagnato in tutto il percorso. Sono degli anni ’50 e oggi che mi vedono accasato con una ragazza pensano: “Allora ci sta che lui sia un uomo”. È un pensiero sbagliato, ma se li mette in tranquillità glielo lascio». Lavora nella stessa azienda della mamma. «Sono arrivato lì che ero una ragazza lesbica e non mi hanno mai discriminato. Ho iniziato la transizione lavorando e sono stato accolto anche dai colleghi. Una mi ha detto: “Va bene, ora ti chiamo Diego, ma non ci abbracciamo più perché io gli uomini non li abbraccio”. All’inizio mi sono sentito rifiutato, invece mi stava legittimando come uomo».

L’insegnante transgender cacciata da scuola

Giovanna ha 29 anni, due lauree e una specializzazione. È insegnante di sostegno e aspetta di diventare di ruolo.

Giovanna

Nel 2019 la scuola per cui lavorava l’aveva allontanata perché transgender, qualche settimana fa un giudice ha dichiarato il licenziamento un atto di discriminazione. «È una sentenza importante, anche se solo di primo grado, specie se pensiamo che qualche mese fa Cloe Bianco, insegnante come me, si è tolta la vita per un problema simile». La sua, dice, è una vita molto normale: lavoro, fidanzato, amici, famiglia. «Alle medie ho cominciato a provare attrazione verso i compagni maschi e dopo ho aperto un profilo social con un nome femminile in cui mi sentivo più vera che nella realtà. Quando ho sentito parlare di disforia di genere, ho unito i puntini. Ho detto a mia madre: “Ho questo dubbio, mi porti in un centro medico per andare a fondo?”. E a 19 anni ho cominciato la transizione». L’amore? «Ho avuto due storie importanti: la prima è durata quasi 6 anni, e la seconda è con il ragazzo con cui convivo. La transessualità è un dettaglio della mia vita, non quello che la definisce. Fino ai 25 anni non sono mai stata discriminata. Poi è successo in quella scuola e sono tornata con i piedi per terra. Mi sento una come tanti, ma anche un po’ meglio».

Le parole giuste per le persone transgender

TRANSGENDER: è un termine tecnico-politico che supera l’idea che sesso e genere corrispondano. PERSONA TRANSGENDER O PERSONA T: è il termine per definire tutte quelle persone la cui identità non combacia con il sesso alla nascita. L’uso dell’articolo è considerato offensivo. TRANSIZIONE O ADEGUAMENTO DI GENERE: è il percorso che porta una persona a smettere di vivere secondo un ruolo di genere relativo al sesso biologico per arrivare a vivere il genere in cui si identifica. TRANSIZIONE F TO M: adeguamento di genere dal femminile al maschile. TRANSIZIONE M TO F: adeguamento di genere dal maschile al femminile. TRANSESSUALE: è un termine tecnico-medico che definisce chi si è sottoposto a intervento chirurgico. La comunità ha iniziato ad abolirlo.

Il ibro di Francesco Cicconetti

Francesco Cicconetti, @mehths su Instagram, ha raccontato la sua transizione in “Scheletro femmina”

Francesco Cicconetti

«IL LINGUAGGIO L’HO SEMPRE SUBÌTO: i pronomi sbagliati, il nome che non era più adatto. Però anche io, prima di iniziare il mio percorso, usavo il linguaggio in modo sbagliato. Dicevo “i trans”, riferendomi alle donne, e avevo nella testa l’idea che fossero tutte sex workers. Quando io stesso sono diventato una persona transgender, ho capito che il linguaggio, invece di subirlo, poteva darmi forza. All’inizio ero però in balia degli altri: quando si riferivano a me al maschile, mi esaltavo; per contro, specie prima di iniziare la terapia ormonale, se usavano il femminile mi rovinavano la giornata. Solo quando la tua identità è solida il linguaggio passa in secondo piano. Le parole giuste, però, non sono immutabili. La comunità ancora le sta cercando: l’identità è varia e le sensibilità sono diverse. Io, per esempio, uso la parola “transizione”, che ha il senso di passare da una condizione all’altra e per me racchiude tutto ed è bella, ma capisco che per qualcuno possa essere traumatica. Invece non uso più la parola transessuale, che ha un riferimento medico ed è sbagliata. Alle presentazioni del mio libro ci sono ragazzi che mi chiedono se a 16 anni è troppo tardi per capire di essere transgender. Tardi? Io l’ho capito a 20, ma ci sono persone che lo capiscono a 50. Un tempo non c’erano modelli, oggi sì. Anche il mio libro e la mia storia spero possano esserlo. Nelle serie tv ci sono adolescenti transgender con vite normali, mentre un tempo il trans era sempre una prostituta. Il senso di normalità si costruisce anche così. La prima cosa che mi ha chiesto mia madre è: “Ma avrai una vita normale?”. E anche io ci ho pensato. Avrò un lavoro, una fidanzata quando sarò più “normale”?. Perché la cultura ci ha sempre detto che non è possibile. E invece sì. I media hanno un ruolo importante. Vorrei poter dire che le nuove generazioni smetteranno di usare linguaggi violenti, ma c’è tanto ancora su cui lavorare. Di certo, però, sanno che l’identità di genere esiste. E questo è un traguardo.