«Metti giù il telefono e giochi con me all’intesa vincente?». Me lo ha chiesto l’altro giorno mia sorella Matilde, 14 anni. Pensavo dividesse il suo tempo tra TikTok e Netflix, cosa ci fa una Gen Alpha su Rai 1 davanti a Pino Insegno? Annerisco lo schermo dell’iPhone e mi faccio spazio accanto a lei sul divano. Scegliamo il team per cui vogliamo tifare («le tre ragazze, per solidarietà femminile») e fingiamo di essere al loro posto. Ci agitiamo, ridiamo, ci arrabbiamo, poi ci arrendiamo mentre cerchiamo di indovinare le parole del penultimo gioco di Reazione a catena senza voltarci verso lo schermo. Così, per 65 secondi, ci guardiamo negli occhi. Poi torniamo a Insegno. Siamo triangolate verso lo stesso punto, la tv, ed è come se ci sintonizzassimo l’una sulla frequenza dell’altra. Una bella sensazione, la chiamerei allegria.
I telequiz hanno fatto la storia, nostra e della televisione
Certo, Matilde non conosce Mike Bongiorno, che è morto nel 2009 quando lei non era ancora nata. E non conosce i telequiz che, nel corso della storia della televisione italiana, sono entrati nella casa e nella vita dei nostri genitori e dei nostri nonni. Il gioco dei 9, Ok, il prezzo è giusto!, La Ruota della fortuna, Passaparola, In bocca al lupo!… Quanti ricordi, vero?
È come se la televisione ci mettesse di fronte a uno specchio: lei dice molto di noi e noi a volte cambiamo rispondendo al suo riflesso.
«La storia della televisione italiana è una storia sociale, in cui il quiz ha avuto un ruolo fondamentale» mi spiega Anna Bisogno, professoressa associata di Cinema e Televisione all’Università Mercatorum. Il calendario segnava il 1944 quando in Italia è stato trasmesso il primo quiz, via radio. Si chiamava Botta e Risposta. «Poi è arrivata la tv con il suo padre fondatore Mike Bongiorno, prima con Il motivo in maschera (sempre in radio), poi con il famosissimo Lascia o raddoppia?. Questi primi programmi si fondavano sulle performance culturali dei concorrenti, competenti in materie anche molto specifiche e singolari. Questo era, per l’Italia degli anni ’50, qualcosa di non solo e semplicemente “televisivo”: la conoscenza diventava un momento di riscatto, personale e del Paese. Le famiglie si riunivano nei pochi appartamenti dotati di una televisione e, mentre guardavano i telequiz, non vedevano solo dei concorrenti che cercavano di rispondere a delle domande, ma anche una cultura intesa come mezzo per elevare il proprio status sociale». Di fatto, quindi, il quiz ha giocato una parte determinante nell’avvicinare la televisione agli italiani, nonché gli italiani stessi.
Dalla domanda allo show
Poi però, a partire dagli anni ’70, qualcosa cambia. Me lo racconta sempre Anna Bisogno: «Con l’arrivo della televisione a colori e di quella privata, che acquista molti format dall’estero, l’accento si sposta dal quiz allo show. Vengono privilegiati gli aspetti scenici, l’inserimento delle band, gli stacchetti, persino la creazione di corpi di ballo che richiamano il nome del game. Ricordi le Letterine? Inoltre vengono scelti conduttori più familiari e informali. È il caso per esempio di L’eredità, Affari tuoi, Reazione a catena e Chi vuol essere Milionario?». Se le domande sul copione di Mike erano lunghe 15 righe, ora sono molto più brevi, delle mini-sceneggiature funzionali a innescare dei momenti ludici. Come ha scritto la giornalista televisiva Francesca D’Angelo su La Stampa, «i quiz e i game show vantano una sorta di immunità al trash e diffondono pure cultura nell’etere». Sarà per questo che mia sorella Matilde ha appena girato su Canale 5?
Cosa resta oggi dei telequiz?
«Oggi la tradizione dei telequiz è ancora molto forte, sono dei punti fermi. Fanno giocare il telespettatore insieme ai concorrenti, lo (in)trattengono davanti allo schermo. E questo genera appartenenza» osserva Anna Bisogno. Come dice Gerry Scotti, “non regalano soldi ma emozioni”. Sembrerebbe anche a Gen Z e successive. «A casa mia la fascia preserale è sempre stata sacra, quando inizia un quiz mettiamo in pausa qualunque altra cosa stiamo facendo. Mamma e nonna mi hanno cresciuto a pane e Passaparola. Anche per questo oggi sono un grande appassionato» mi racconta Vittorio Toffanetti, 22 anni, studente di Comunicazione e analista televisivo per Tv Talk su Rai 3.
Certo, lui è un’eccezione. Sfido a contare i coetanei che alle 18.45 sono in pole position di fronte alla tv (presupponendo che esista e che stia reggendo il confronto con il pc). Azzarderei a dire che per la maggior parte di noi vedere i telequiz non è mai stato un vero e proprio rito. Piuttosto, occasionalmente, un momento familiare, di raccolta, un pretesto per costruire – con chi apparecchia mentre noi cuciniamo – quello che chiamiamo “quality (più che access) time”. In cui è forse più frequente ascoltare che guardare. «Per alcuni di noi i quiz sono un sottofondo, magari qualcosa che ci scolla dal cellulare. Non entrano nei nostri discorsi, ma nella nostra quotidianità a volte sì» nota Vittorio. A parte rari casi, come dice giustamente Anna Bisogno, «i punti di contatto tra i giovani e la televisione tradizionale sono pochi. Semplicemente, quella dei telequiz è una tradizione che appartiene a un’altra generazione».
Un pubblico dalla passione vintage
Non a caso sembra essere in corso una sorta di “operazione nostalgia”: il palinsesto oggi ripropone format del passato in cui Boomer e Generazione X si possono riconoscere, con cui hanno familiarità. «È una televisione ripiegata su se stessa, malinconica per certi versi, che dà a molti di noi la possibilità di (ri)entrare in contatto con pezzi della storia della televisione» continua l’esperta. E così, mentre la tv manda in onda successi acclarati come fosse una macchina del tempo, ciascuno di noi può ricordare chi è stato mentre Mike faceva girare la ruota o Gerry appariva sulle note di Ullalà. «La televisione tradizionale non dà scampo: ti dice se una cosa è fuori tempo, e quindi appartiene al passato, oppure no» conclude Anna Bisogno.
Noi, che ci teniamo compagnia
E forse è il caso di dire che certi quiz e game show stanno superando la prova di contemporaneità. Peccato solo che ora nell’appartamento di Milano non ho né un salotto né una televisione. Né tantomeno il dono dell’ubiquità che mi permetterebbe, alle 19, di essere contemporaneamente di fronte al pc aziendale e a Marco Liorni. Quando torno a casa, però, mi piace ogni tanto allontanare il telefono, con tutte le ansie che contiene, e sedermi sul divano accanto a Matilde. In tv passa un telequiz qualsiasi e – perché no? – potrebbe tenerci compagnia, persino darci l’occasione di guardarci per un po’ negli occhi come non capita quasi mai. «Ma tu sai chi è lui?» le chiedo. «Più o meno. Su TikTok mi escono i momenti epici di L’eredità, fanno ridere. E comunque a me questo gioco piace, se tu lo fai con me». Sarà che noi “grandi” vogliamo sempre complicarci la vita con teorie, anglicismi e letture critiche. Sarà che vogliamo sempre trovare un fenomeno, ci ostiniamo a razionalizzare, a generalizzare, a creare schemi, a incasellare le generazioni. Molte volte è di fondamentale importanza. Altre, invece, credo ci basterebbe accontentarci di sapere che certe cose della vita sanno dire di noi più di quanto potremmo mai dire noi di loro. Tipo i telequiz, tipo la nostalgia. E l’allegria.
In onore di Super Mike
Mike Bongiorno ci ha portato l’allegria. Noi oggi, celebrando il suo centenario, gli dedichiamo i nostri ricordi. Con iniziative speciali come queste.
LA MOSTRA A Palazzo Reale di Milano, dal 17 settembre al 17 novembre, c’è Mike Bongiorno 1924-2024. Un’esposizione inedita di oggetti e ricordi – alcuni rari e mai mostrati prima – che documentano il cammino umano e artistico del conduttore. Dal passaporto che gli ha salvato la vita alla cabina del Rischiatutto. Le ricostruzioni scenografiche permettono di interagire dal vivo con il mondo dei quiz e conoscere il loro re più da vicino. L’obiettivo? Raccontare come la vita di Mike sia stata non solo quella di un grande comunicatore e presentatore, ma anche di uno straordinario fenomeno sociale e culturale che ha contribuito a costruire la nostra memoria collettiva.
LA MINISERIE Italia, 1970. Tra il boom economico e gli anni di piombo. In tv arriva Rischiatutto. A condurlo, con strepitoso successo, Mike Bongiorno. Ma chi era – ed era stato – l’uomo dietro lo schermo? Per scoprirlo, su Rai 1 il 21 e il 22 ottobre va in onda Mike, la miniserie in due puntate che racconta la vita di Bongiorno nei suoi lati più intimi e segreti.
IL PODCAST Mike è anche il titolo della nuova serie podcast di Giulia Depentor e Giulio D’Antona (OnePodcast). Racconta la storia del furto della salma di Bongiorno, avvenuto nel piccolo cimitero di Dagnente, sul Lago Maggiore, 2 anni dopo la sua morte nel 2009. Ascoltando le interviste a testimoni, amici, investigatori e altri protagonisti della vicenda, si può ripercorrere un evento senza precedenti che ha scosso profondamente l’opinione pubblica.