4 ore e 14 minuti. È il tempo che ho passato questa settimana online sul mio telefonino. Il 19% in meno rispetto alla scorsa. A volte supero le 5. Ore che impiego in modo fruttuoso per lavorare, comunicare, sbrigare prenotazioni e pagamenti, e in modo infruttuoso per guardare video e scemenze varie. Quattro ore e 14 minuti corrispondono a un part-time, a un viaggio Milano-Napoli su un treno ad alta velocità, a un terzo di una giornata che inizia alle 8 e finisce alle 20. Un mucchio di tempo. Tempo in parte ben speso, in parte sprecato. A volte tossico.
Tutto il tempo che passiamo online
Il primo lunedì di rientro dalle vacanze, mi sono svegliata allegra. Mi sentivo rigenerata, pronta a riprendere gli impegni di sempre. Ho avuto la pessima idea di dare uno sguardo al telefonino mentre bevevo il caffè. Giusto uno sguardo sulle vite degli altri. In fondo Instagram serve a questo. La sera prima avevo postato un bellissimo reel sul mio viaggio in Thailandia (bellissimo per me, le mie figlie mi hanno preso in giro definendolo cringe: troppa musica, troppe foto, boomerismo all’ennesima, vabbè) ed ero curiosa di vedere le reazioni. Ma anche di dare un’ultima occhiata alle villeggiature di noti ed ignoti. Doveva essere giusto una scrollata, invece ha preso parecchi caffè. Al termine ero di pessimo umore. Perché mi urtava l’idea di tornare al dovere mentre tanti erano ancora pied-dans-l’eau? Perché le loro ferie sembravano migliori delle mie, i loro commenti più smart, le loro abbronzature più dorate? Non saprei. Ma certo “quel giro”, appesantito anche dalle notizie del giorno, non mi ha fatto bene.
Iperconnessi, ma non fra noi
Questo continuo “esserci” e confrontarsi sulle varie piattaforme digitali ha un che di velenoso. Ci espone, ci svela, ci rende vulnerabili. Risveglia narcisismi che tenevamo a bada, tramutandoli in debolezze. Mentre ci illude di restare in contatto con il mondo, in realtà ci isola. «Ti ho visto», «Ti ho seguito», ci diciamo incontrandoci per strada, ma poi non ci chiamiamo, non ci chiediamo «Come stai?». Nell’era dell’iperconnessione ci sentiamo più soli che mai. Disabituati al contatto fisico e alle emozioni. Anestetizzati da una comunicazione tutta virtuale, che ci consente di liquidare via chat congratulazioni e condoglianze, togliendoci la fatica della stretta di mano, dell’abbraccio, dell’imbarazzo per la parola sbagliata.
I social non danneggiano solo gli adolescenti
Dico questo perché si fa un gran parlare dei danni dei social sugli adolescenti, soprattutto in questi giorni per l’uscita del libro La generazione ansiosa di Jonathan Haidt, che offre un quadro davvero preoccupante degli effetti degli smartphone sui nostri figli: perdita di sonno e concentrazione, ritiro sociale, depressione. Ma i primi a essere danneggiati siamo noi. Ed è grave, perché non siamo nativi digitali, sappiamo com’era “vivere senza”. Ma, invece di cogliere i segnali e porre un argine, ci siamo approfittati dei vantaggi. Come tanti dei nostri genitori hanno delegato alla tv il compito di intrattenerci ed educarci da piccoli, rendendoci la generazione più immatura e consumistica di sempre, noi abbiamo affidato ai device la formazione e lo svago dei nostri figli. Quanti bambini vediamo incollati a uno schermo mentre gli adulti chiacchierano tra loro o fanno altro?
Dove sono finiti il dialogo e lo scontro?
Lo smartphone ci ha tolto non solo l’obbligo dell’accudimento, ma anche lo scoglio del dialogo e dello scontro. Due cose fondamentali nelle relazioni. Mentre un brusio di notifiche ci distrae tutto il giorno, il silenzio è piombato nelle nostre vite, scavando distanze. In tempi insospettabili Theodor Adorno, filosofo tedesco, parlando dei “mezzi di distrazione di massa” diceva che «divertirsi significa non doverci pensare, dimenticare il dolore».
Ma il dolore fa parte della vita e se non impariamo ad affrontarlo ci sovrasta e ci annienta
Noi grandi abbiamo avuto il tempo per sviluppare gli anticorpi, i nostri figli no. E in parte ne siamo responsabili. Ma non possiamo pensare che tutta la colpa dei malesseri della Generazione Z sia nostra, come molti sostengono. Le famiglie sbagliano perché sono sole. Non hanno modelli a cui ispirarsi in un mondo che ha cambiato paradigmi né una rete di educatori di supporto fuori casa. Invece di puntare il dito, troviamo insieme le soluzioni. E facciamolo presto.