Adriano Panatta, il più famoso tennista italiano di sempre, ha definito il suo come lo sport del diavolo. Non solo perché in campo il pareggio non esiste (o si vince o si perde) ma anche perché solo un giocatore alza il trofeo, mentre tutti gli altri devono far fronte alla sconfitta. Ed è quello che succederà al Foro Italico di Roma dal 6 maggio in occasione degli Internazionali d’Italia, il più importante torneo del nostro Paese dove si sfideranno i grandi campioni del mondo, da Novak Djokovic a Rafael Nadal.
«Come spesso nella vita, chi è in campo è solo, di fronte a una sfida e quello che bisogna fare è imparare a superare la frustrazione di perdere, mantenendo l’entusiasmo e la volontà di vincere. E in questo il tennis può insegnare molto anche a chi non gioca». A dirlo è Umberto Longoni, psicologo dello sport e psicoterapeuta, autore del libro appena uscito Il tennis al contrario (Franco Angeli).
Ma qual è la differenza tra perdere e fallire?
«Il fallimento si riferisce all’infrangersi dei sogni o, in generale, alla percezione di una mancata realizzazione personale. La sconfitta ha una dimensione molto concreta: non solo è circoscritta a una partita ben definita, ma deriva necessariamente dal confronto con un altro, il cosiddetto avversario».
Però è proprio la presenza di un avversario che espone al temutissimo rischio di sentirsi perdenti.
«Qui sta la prima lezione del tennis. Vincere alimenta l’autostima ma sul campo s’impara che perdere non significa solo uscire sconfitti, ma allenare la resilienza, la determinazione, la capacità di affinare nuove strategie, tutte caratteristiche decisive per primeggiare. Lo dimostra la storia dell’attuale numero uno al mondo, Novak Djokovic, capace di tornare al vertice dopo due anni di batoste».
In pratica cosa significa?
«Che spesso nella vita temiamo la competizione perché consideriamo il paragone con l’altro la misura del nostro valore. Invece, è solo un indicatore della nostra posizione: ci mostra a che punto del percorso siamo, ci permette di conoscerci meglio, di capire quali sono i nostri colpi migliori e i nostri punti deboli, ma anche di smettere di focalizzarci solo su noi stessi e la nostra performance e di imparare a osservare l’altro per affinare le nostre strategie e rendere lo “scambio” ancora più efficace».
Più facile a dirsi che a farsi…
«Un trucco è scendere sempre in campo con un doppio obiettivo: uno è battere l’avversario, l’altro è migliorare le proprie abilità. Che per un tennista magari vuol dire sperimentare un maggiore gioco a rete, per chi affronta un colloquio di lavoro, invece, affinare la proprietà di linguaggio. L’obiettivo è liberarsi dalla tensione di dover vincere a tutti i costi».
Qual è il primo passo per riuscirci?
«Smettere di cercare alibi. Di fronte ai propri errori, l’istinto più comune è quello di dare la colpa agli altri, alle circostanze o alla sfortuna. Ma nel tennis questa mistificazione della verità non funziona perché l’errore è sotto gli occhi di tutti. La sconfitta brucia? Ricorda che l’unica cosa che puoi controllare e modificare è il tuo gioco, quindi prenditi la responsabilità dei tuoi sbagli, analizzali e correggili. Così capirai anche che sono preziosi e smetterai di vergognartene».
Questo significa che ogni partita è prima di tutto una sfida con se stessi?
«Esatto. Nel tennis è evidentissimo: chi è che ci fa perdere partite che stiamo dominando? Chi è che ci rende difficile anche solo mettere un servizio dall’altra parte della rete? L’avversario interiore. Non per niente è stato calcolato che in una partita di tennis professionistico ci sono più tempi morti che giocati. In realtà sono tempi utilizzati a recuperare energia, pensiero positivo, fiducia».
Come?
«I tennisti spesso usano l’asciugamano. Federer ha raccontato che per lui è come la coperta di Linus: gli dà sicurezza e tranquillità tra un punto e l’altro. Una tecnica base per tutti è lo “stop thinking”: appena un pensiero negativo si presenta, sostituiscilo con l’immagine di qualcosa di positivo o rilassante. Aiuta a resettare la mente e ad aumentare la concentrazione. Occhio, però: bisogna allenarsi fino a farlo diventare quasi un riflesso condizionato».