Un caso su un milione. Francesca Jones è uno di questi casi. È una tennista inglese che si è qualificata al primo dei quattro tornei del Grande Slam giocando con quattro dita per ciascuna mano, tre nel piede destro e quattro nel sinistro. Ha una malattia rara, l’ectrodattilia displasia ectodermica labiopalatoschisi, detta anche Sindrome EEC. Questo non le ha impedito di diventare la numero 241 al mondo, e ora parte per la sfida di Melbourne. Possibile?
La malattia toglie, e tu aggiungi
Parte subito la conta morbosa: con quante dita si può tenere in mano una racchetta? Con quante dita del piede si può correre incontro a una pallina che viaggia a 200 km orari? Lo chiediamo a Giulia Volpato, vicepresidente dell’Associazione P63 Sindrome EEC International Onlus, nonché una dei 60 pazienti italiani, una giovane donna tutta freschezza, entusiasmo e vitalità: una voce argentina che ci fa ridisegnare tutte le nostre convinzioni – e i pregiudizi, come se chi ha una malattia così non potesse vivere con pienezza, essere bravo a tennis o realizzare i suoi sogni. Giulia, più che rara come la sua malattia, è unica: è la dimostrazione di come l’inevitabile non accade mai, l’inatteso sempre. Di come, insomma, anche le leggi della medicina possano essere soggette all’imponderabile. Infatti ha una delle forme più severe della Sindrome EEC, eppure è diplomata maestra di balli caraibici, si è laureata, lavora e tra pochi mesi si sposerà. «Non siamo supereroi, siamo persone che in un gioco matematico di addizioni e sottrazioni, abbiamo compensato quello che la vita ci ha tolto. La tennista ha trovato negli anni il suo adattamento nel correre e nel giocare, una partita infinita contro equilibri e forze opposte. Anch’io ero molto brava negli sport, con le mie due dita per ogni piede, tre nella mano sinistra e due a destra. Eppure ho fatto danza classica e ginnastica artistica e facevo le capriole poggiandomi con un dito».
Le varianti note sono almeno 40
Quelle capriole l’hanno portata lontano: si è laureata in Scienze politiche, ha partecipato a Miss Italia nel 2014 e ora è vice presidente della P63 EEC International Onlus, l’associazione internazionale che raccoglie i pazienti con mutazione del gene P63 e le loro famiglie, e poi medici, psicologi e ricercatori internazionali. Negli anni è diventata punto di riferimento in Europa. «Quando sono nata, nel 1991, non si conosceva nulla di questa malattia. Ora sappiamo che esistono almeno 40 varianti e che io ho una delle forme più severe, quella che, oltre ai problemi a mani e piedi e alla labiopalatoschisi (cioè il labbro aperto e il palato molle assente), provoca danni irreversibili alla cornea che possono portare alla perdita della vista. Dalla nascita ai sette anni ho subito 17 interventi chirurgici prevalentemente alla bocca e agli arti. Un calvario che mi ha portato a diventare il paziente con Sindrome di EEC più studiato in Europa: oggi grazie alle conoscenze che si sono accumulate a partire dalla mia storia e al lavoro dell’associazione, possiamo evitare sofferenze ai bambini e perdite di tempo a tante famiglie». È grazie alla mamma di Giulia che dal 2009 le famiglie trovano riuniti nell’associazione genetisti, biologi, oculisti, neonatologi, chirughi, dermatologi, odontoiatri, pronti a rispondere alle richieste di aiuto, curare la pelle, i capelli, gli occhi.
Tutto parte da una proteina mutata
Già, perché la Sindrome EEC, oltre a malformazioni a mani e piedi, e palatoschisi, provoca problemi a diversi tessuti. «La pelle e altri epiteli simili sono ipersensibili, molto sottili, e questo compromette la loro funzionalità. Da qui, frequenti infezioni e infiammazioni. Spesso abbiamo l’alopecia e tutti abbiamo bisogno di visite continue ai denti perché quelli definitivi non crescono mai». Si chiama agenesia e ti lascia un sorriso da bimbo in un corpo da adulto, finché poi – crescendo – si è costretti a impianti dentali dolorosi e costosi. E intanto possono subentrare anche problemi all’apparato urinario. Un puzzle che si è cominciato a capire solo pochi anni fa. Caterina Missero è una biologa molecolare che studia proprio questa malattia: è professore all’Università Federico II di Napoli. «Tutto dipende da una proteina mutata, presente in alcuni tessuti, quelli che appartengono alla “famiglia” di pelle, denti e capelli, alla cornea e ad alcune parti dell’apparato urinario. La proteina mutata è la P63, in pratica ha un mattone un po’ rotto, cioè il risultato finale della catena del DNA che, se alterato, dà origine a questa proteina malfunzionante». Insomma, tutta colpa di una proteina che, nella sua spietatezza, almeno risparmia lo scenario più drammatico. «Quando viene colpita la cornea, non viene colpito l’apparato urinario, e viceversa». Per questo Francesca Jones può giocare, perché i suoi occhi sono sani. Ognuno insomma è un caso a sé, unico nel mix di alterazioni possibili.
La difficile lotta contro il pregiudizio
Ma gli altri tutte queste cose non le vedono, finché non diventi grande. «Fino alla terza elementare mi sentivo come tutti gli altri, poi ho cambiato scuola e la mia vita è diventata un inferno. Da lì, ho cominciato ad essere avvolta nel pregiudizio del non poter fare le cose come tutti, ma erano gli altri a pensarlo, non io. Non mia mamma, che mi ha sempre spinto a vivere senza diversità. Sport, attività varie, perfino il pianoforte. Sono cresciuta certa di poter fare tutto, e tutto adesso posso fare. Proprio come la campionessa di tennis, che non è un’eccezione, ma la dimostrazione di come, potenziando le nostre capacità, tutti noi possiamo raggiungere traguardi altissimi». Si tratta, appunto, di lavorare ognuno su quel residuo di capacità che la malattia lascia e che la tennista ha sviluppato alla massima potenza con l’esercizio fisico, la forza di volontà, la concentrazione della mente. Giulia invece non potrebbe rincorrere la pallina come Francesca perché, toccandole la forma più grave della malattia, ci vede molto poco. Ma ha sfruttato questa sua caratteristica mettendosi a disposizione delle persone ipovedenti, a cui insegna danze caraibiche. «Non ho mai vissuta da ammalata o da segregata, per me tutto è normale e possibile, ma non lo è – ancora oggi – per molte famiglie».
Accettare una malattia rara è come elaborare un lutto
L’accettazione di una malattia del genere è come l’elaborazione di un lutto, aggravata dai sensi di colpa per aver in qualche modo trasferito al bambino un patrimonio genetico alterato. Ma se è umano porsi certe domande, non ha senso lasciare che queste distruggano tutto ciò che di bello può esserci: vite piene, dove si può sognare e realizzarsi. Eppure, la nascita di un bimbo con questi gravi problemi getta le famiglie nella disperazione, molte si disgregano. «Il percorso di rinascita da questo senso di grave perdita inizia col capire che davanti abbiamo tutti un orizzonte. Se vediamo solo le nostre debolezze, l’orizzonte finisce per restringersi. Invece al di là ci sono tante scoperte ancora da fare, tante capacità da esplorare». Il dottor Michele Tricarico è lo psicologo dell’associazione che aiuta le famiglie e le persone con malattie rare. Co-gestisce il gruppo di auto-mutuo aiuto in seno all’associazione per rompere l’isolamento e l’emarginazione. «Ognuno ha propri traguardi da porsi. Quello della tennista è molto alto, legato a un’espressione particolare della malattia, ma ciascuno ha i suoi. Nessuno trent’anni fa avrebbe mai pensato a una Giulia maestra di ballo».
Noi pensiamo alle persone con malattie rare come a isole lontane, staccate dalla terraferma dove stanno tutti gli altri. Invece sono atolli, lagune difficili da vivere, ma tutte da scoprire. Cerchi imperfetti, che si chiudono lentamente come un abbraccio e ridefiniscono uno spazio dentro cui si forma e vive un altro ecosistema, più unico che raro.