In Italia circa 16 milioni di persone (quasi un quarto della popolazione) soffrono di dolore cronico. In Europa, 80 milioni. Quando si parla di dolore cronico e di terapia del dolore, pensiamo ai malati terminali. Invece la sofferenza legata al cancro riguarda solo il 5 per cento di questi pazienti. Tutti gli altri convivono per anni (almeno sette, fino a più di 20 per quasi un quinto di essi) con “semplici” lombalgie, diabete, artrosi, artrosi cervicale, e poi cefalee, endometriosi, fibromialgia, reumatismi, ernie del disco. Tutte patologie che compromettono la qualità della vita e quasi nel 50 per cento dei casi portano ad ammalarsi di depressione. Circa un terzo dei malati, infatti, non riceve ancora una terapia adeguata. Perché?
Cosa dice la legge sulla terapia del dolore
Eppure l’Italia ha una legge sulla terapia del dolore che il mondo ci invidia, la n. 38 del 2010. «Questa legge sancisce che la terapia del dolore fa parte dei Lea, i livelli essenziali di assistenza. Quindi il nostro sistema santuario è tenuto a garantirci in modo gratuito o con il pagamento del ticket le cure per non soffrire» spiega Sabrina Nardi, vice coordinatore nazionale del Tribunale per i diritti del malato. «Oggi chi è sottoposto a qualsiasi procedura diagnostica o terapeutica, ha diritto a veder riconosciuto, valutato e trattato il dolore e l’ansia che ne può conseguire». La legge insomma stabilisce il diritto a non soffrire. «Il dolore cronico oggi viene considerato come una malattia a sé stante, al di là della patologia che l’ha provocato. Questa legge per la prima volta tutela chi ne soffre e dà pari dignità a tutte le forme di dolore (e non solo a quello oncologico). Quindi consente l’uso degli oppioidi anche se si tratta di malattia non oncologica e istituisce la rete della terapia del dolore, cioè un sistema di cure organizzato sul territorio che si snoda a partire dai medici di famiglia» spiega il professor Raffaeli, presidente di Fondazione Isal.
Come funziona la rete della terapia del dolore
Una rete che sulla carta è ideale. «Secondo la legge, i medici di famiglia non devono limitarsi a prescrivere antinfiammatori ma sta a loro riconoscere il dolore cronico e ordinare con ricetta cannabis, oppioidi o per esempio antiepilettici, efficaci in certi tipi di nevralgie. Se poi questi farmaci non bastano, i pazienti vanno inviati ai centri “spoke”: sono gli ospedali più vicini, dotati di ambulatori dove i medici lavorano in équipe (algologo, neurologo, fisioterapista, psicologo) per fornire cure più adeguate, non solo a base di medicinali ma anche di interventi chirurgici, come gli innesti di sonde particolari. Nel caso in cui anche queste cure non fossero sufficienti, tocca agli Hub, ospedali più grandi – presenti in teoria ogni 2 milioni di abitanti – dotati di apparecchiature ad alta complessità».
Gli italiani ignorano il diritto a non soffrire
Un modello organizzativo all’avanguardia che però finora si è arenato al primo livello, ovvero i medici di medicina generale. «Noi italiani siamo i primi consumatori mondiali di antinfiammatori, per cui spendiamo 500 milioni di euro all’anno, contro i 130 milioni di oppioidi. Ancora oggi, a testa destiniamo appena 1.67 euro agli oppioidi contro i 10 della Germania e della Spagna» spiega il professor Raffaeli. Perché?
Eppure per legge ogni persona con dolore cronico ha diritto a non soffrire e ad accedere alle cure. Secondo un’indagine condotta dalla Fondazione Nazionale Gigi Ghirotti e da Fondazione Isal, 2 italiani su 3 ignorano questa legge. Il 21,2 per cento non sa a chi rivolgersi e vaga nel labirinto della sanità pubblica e privata per una media di 4, 5 anni prima di arrivare a un centro specialistico di terapia del dolore. Il 33 per cento consulta inutilmente dai tre ai sette specialisti. E l’informazione non arriva in modo fluido dai medici di famiglia (a cui si è rivolto il 64 per cento dei pazienti) che di fronte al dolore prescrivono farmaci, ma non consigliano quasi mai (solo il 35 per cento lo fa) il ricorso ai Centri per la terapia del dolore. «In collaborazione con il Ministero della Salute, stiamo svolgendo un’altra indagine per capire i punti deboli di questa catena: l’obiettivo è creare un osservatorio nazionale e altri regionali per aiutare le persone ad accedere alle terapie antidolore» dice il professor Raffaeli. «Esiste un grosso buco a livello territoriale perché ogni Regione organizza ospedali e ambulatori come ritiene opportuno, quindi può succedere che ci sia un ambulatorio algologico, ma che non funzioni, oppure che esistano i centri hub ma i pazienti non riescano ad accedervi».
I buchi nella rete della terapia del dolore
La collocazione dei centri della terapia del dolore è a macchia di leopardo. «In alcune regioni non ci sono gli Hub, oppure esistono ma non sono sufficienti. In molti casi mancano gli ambulatori sul territorio oppure è difficile raggiungerli, per la geografia complessa del nostro territorio» commenta la dottoressa Lorenza Bacchino, referente per la terapia del dolore e cure palliative del Fimmg (maggiore sindacato dei medici di famiglia). A fronte di questa “smagliatura” territoriale, sembra però che il clima stia cambiando e i medici di famiglia siano diventati più attivi all’interno della rete. Secondo l’ultima indagine del centro studi Fimmg, il 90 per cento dei medici di base prescrive la terapia del dolore nella prima visita e prende in carico interamente il paziente. «Oggi i medici sono più preparati a riconoscere il dolore cronico e possono prescrivere gli oppioidi con più facilità. Il decreto della ministra Grillo del 12 luglio 2018, passato quasi inosservato, “sdogana” la prescrizione a partire dal medico di famiglia, a cui quindi si possono chiedere farmaci più potenti dei semplici antinfiammatori».
Cosa possono chiedere i pazienti
I pazienti, però, da parte loro devono conoscere i propri diritti. «Ciò vuol dire poter chiedere al medico di famiglia di andare oltre i semplici antinfiammatori se questi non funzionano; poter chiedere altre terapie (per esempio cambiare l’alimentazione o l’attività fisica); pretendere anche gli oppioidi e, una volta in ospedale, chiedere che il dolore sia misurato in modo oggettivo, in base a scale approvate, e inserito in cartella clinica come si fa con la temperatura e la pressione» dice Sabrina Nardi. «Oggi è una procedura in genere seguita nella maggior parte degli ospedali: infermieri e medici fanno domande precise sul tipo di dolore e chiedono al paziente di quantificarlo. In base alla risposta, modulano poi la terapia. Il tipo e il grado di dolore, insomma, oggi devono essere alla base della terapia che poi nel tempo viene ri-valutata, sempre in relazione alle risposte del paziente. La cosa importante da sapere è che se non ci viene chiesto quanto dolore abbiamo e non ci viene data una cura, possiamo pretenderla. Ricevere una terapia adeguata al proprio grado di sofferenza è un diritto del paziente. Come è un nostro diritto, dopo un ricovero ospedaliero, ricevere almeno il primo ciclo di terapia».
Differenza tra terapia del dolore e cure palliative
Spesso la terapia del dolore viene confusa con le cure palliative.
Per terapia del dolore si intende il trattamento di qualunque tipo di dolore correlato alla malattia oncologica ma non solo. I medici sono anestesisti e l’approccio è sia farmacologico (antinfiammatori, oppioidi deboli e forti, eventualmente associati a cortisonici, ansiolitici, antidepressivi) sia con terapie invasive. Le cure palliative sono le terapie per migliorare la qualità della vita quando la malattia non si può più curare. In genere si tratta di malattia oncologica, cardiologica o neurologica. Le cure si svolgono prima in ospedale o ambulatorio e poi in hospice o a domicilio. L’équipe è composta da medico, infermiere, psicologo, terapista della riabilitazione, assistente sociale e spirituale.
Dolore cronico e invalidità
L’obiettivo a cui puntare è ambizioso: riconoscere l’invalidità a chi soffre di dolore cronico. «Il dolore cronico per ora non dà diritto all’invalidità. Sono le malattie a cui è legato che garantiscono certi punteggi. Ma il criterio di assegnazione di questi punteggi è livellato. Oggi per esempio capita che si riconosca la stessa invalidità a due persone con un arto amputato, senza considerare che una può magari svolgere una vita normale, e l’altra invece soffrire dell’arto fantasma, una patologia dolorosa che mina gravemente i movimenti più banali. Per la legge, il fatto che un paziente possegga la protesi è di per sé motivo di invalidità, ma come poi si convive con questa protesi, non viene considerato». A parlare è l’avvocato Francesca Sassano, che con Fondazione Isal sta lavorando a un disegno di legge che superi i “tabellari” dell’invalidità (che risalgono a un decreto ministeriale del 1992) per inglobare il dolore come criterio utile ad assegnare i punteggi. «L’invalidità dovrebbe spettare anche a chi, per esempio in seguito a incidenti o traumi, per non sentire dolore compensa caricando in modo anomalo ginocchia e colonna vertebrale, e provocando così altre patologie. Oppure si ammala di depressione, a volte fino a meditare il suicidio».