La prima volta che sono stato ad Amatrice, per un documentario sul recupero delle opere d’arte nelle zone del terremoto, era poco meno di un anno fa. Quel che resta del paese mi è apparso all’improvviso dopo una curva in salita. In macchina, con la troupe, stavamo ascoltando le canzoni spensierate dei lunghi viaggi. Abbiamo rallentato e abbassato la radio, il silenzio delle macerie è entrato dai finestrini come un gas. Guardavamo impietriti oltre le staccionate color ghiaccio che hanno costruito per isolare la zona rossa. Abbiamo tirato un sospiro di sollievo quando il cantiere finiva e iniziava la parte nuova.

Roberto Moliterni
1 di 6

In molte frazioni la situazione è rimasta come subito dopo il terremoto.

Roberto Moliterni
2 di 6

Nel centro storico la rimozione delle macerie si avvia alla conclusione.

Roberto Moliterni
3 di 6

I lavori di messa in sicurezza del cimitero.

Roberto Moliterni
4 di 6

L’Area Food dove si sono trasferiti molti ristoranti del centro storico.

Robert Molitreni
5 di 6

Roberto Moliterni
6 di 6

Da allora ho attraversato spesso la zona rossa e la sensazione di raggelamento è rimasta la stessa. Ancora oggi ci sono macerie, le ruspe le stanno rimuovendo. Dove c’era l’albergo Roma oggi è una spianata, un campo di calcio, da cui spunta soltanto la torre civica e quel che resta del museo. Su un lungo nastro trasportatore gli operai selezionano macerie e se trovano oggetti personali – giocattoli, libri, radioline – li mettono da parte.

A volte gli oggetti sono disposti lungo il perimetro delle case a cui appartenevano in attesa che i proprietari vadano a prenderseli. Quelle che fanno più impressione sono però le scarpe ancora interrate e perse nella fuga di quel 24 agosto 2016 in cui la terra tuonò e le strade di Amatrice erano piene di polvere e puzzavano di gas. Molti descrivono quel suono come un drago sepolto sottoterra che si risveglia.

Gli amatriciani continuano a raccontarli quei momenti. Sono diventati materia per i poeti improvvisatori, tipici del Centro Italia, che ogni tanto si riuniscono ancora nelle osterie. Sperano che, ogni volta che la si dice, quella notte pesi un po’ di meno. Percorrendo la zona nuova di Amatrice, dove le persone camminano senza una direzione precisa, come in un purgatorio, la parola che si sente più spesso, captando frammenti di conversazione, è “terremoto”. Nel corso di una giornata la si può sentire decine di volte. In questi 3 anni chi è rimasto – mentre altri si sono trasferiti sulla costa – ha trovato posto nelle casette gialle, che qui però chiamano più freddamente “Sae”, soluzioni abitative in emergenza, e nei nuovi quartieri temporanei, “campi”. I campi non hanno nome, ma un numero, quello dell’ordine di costruzione: il campo zero è il primo. Anche le vecchie case, che sono in piedi ma non abitabili, vengono chiamate con le sigle. «La mia è una BF» dicono in fila al municipio per presentare i progetti di ristrutturazione.

Il linguaggio è cambiato ad Amatrice: il precedente è stato raso al suolo come i luoghi a cui si riferiva. Tutti dimenticano parole o nomi appena sentiti, buchi di memoria improvvisi. «È uno dei “regalini” del terremoto, siamo come pesci rossi» dice Lucia, 60 anni, volontaria del centro Caritas, una struttura temporanea costruita dalla diocesi di Rieti sotto l’ex orfanotrofio Don Minozzi, dove bambini e anziani si ritrovano per giocare a carte, cantare nel coro, disegnare o seguire corsi di organetto. Quando si parla di ricostruzione, lo si fa usando il futuro remoto delle favole. La lingua di chi in fondo non crede ma fermamente spera. Per ora c’è il nuovo plesso scolastico, si discute di dove collocare il nuovo ospedale – il sito precedente era angusto e i cittadini chiedono ulteriori verifiche geologiche – e sono iniziate alcune ricostruzioni private, sebbene molti abbiano paura di tornare in case in muratura. C’è chi dorme sulle sedie a sdraio con le scarpe, pronto ogni notte a scappare. «Io di sicuro Amatrice non la vedrò più» dice Vito, 85 anni, davanti al bar del nuovo centro commerciale. Lo chiamano il “carcere”: tutti i negozi che prima stavano in centro ora si affacciano su un cortile circondato da ringhiere. Qualcuno resta per ore affacciato a guardare giù, aspettando qualcosa.

I più giovani si incontrano al bar “Rinascimento”. Il proprietario, Fabio, un 40enne che prima faceva l’antiquario, ha scelto il nome dopo il terremoto. Il suo è uno dei pochi edifici intatti. I ragazzi si trattengono fino a notte, bevendo e cantando, almeno finché nella playlist non finisce una canzone suonata al funerale di un amico. Tutte le sere invece ascoltano Domani ci passa, inno disperato alla vita: «E un’altra notte che passa, questa vodka rilassa, non pensare al domani, alza al cielo le mani». A pochi metri dal bar di nuovo il silenzio spettrale delle macerie, di un paese che non fa più rumore. Le loro voci ogni notte sfidano quel silenzio.

I NUMERI DI AMATRICE

2.418 – i residenti attuali
2.632 – i residenti prima del sisma. Ma chi non è tornato spesso non ha cambiato residenza
537 – le Sae, ovvero le famose “casette”, costruite. Sono distribuite in 40 aree
70 – i progetti presentati per le ricostruzioni private
97 – gli edifici di culto di interesse storico-artistico in provincia di Rieti da mettere in sicurezza: 11 sono stati affidati al ministero dei Beni culturali, 16 ai Comuni, 70 alla diocesi.

IL DOCUMENTARIO
Scritto da Roberto Moliterni, diretto da Simone Aleandri e prodotto da Clipper Media, racconta il recupero delle opere d’arte dopo il terremoto. Il doc, adesso in produzione con la consulenza, tra gli altri, dell’architetto Brunella Fratoddi, muove dalla storia di Floriana Svizzeretto, ex direttrice del museo Cola Filotesio di Amatrice, morta sotto le macerie.


Vedi anche:

IL PROGETTO DI DONNA MODERNA #RICOMINCIAMO