Prevedono l’aggressività del tumore, valutano i benefici della chemioterapia e aiutano nella scelta delle cure migliori per abbassare il rischio di recidive. Sono i test genomici, l’ultima frontiera nella diagnosi del cancro al seno che studia l’attività di particolari geni coinvolti nella malattia. Ma c’è ancora molta confusione sul loro reale utilizzo ed enormi disparità per quanto riguarda la possibilità di eseguirli a carico del Servizio sanitario nazionale.
Prendiamo quello che oggi viene ritenuto il capofila, l’Oncotype DX Breast Recurrence Score: allo stato attuale, viene rimborsato solo in Lombardia e nella provincia autonoma di Bolzano. In tutto il resto d’Italia, ha un costo di circa 3.000 euro. Eppure economicamente sarebbe vantaggioso, come ha dimostrato uno studio condotto in Lombardia su 400 pazienti: in una sola Regione ha permesso di risparmiare circa 1.000 chemioterapie, senza pericoli per la salute. Tra i vantaggi per le pazienti ci sono anche meno giornate in ospedale oltre che il poter evitare il calo delle difese immunitarie indotte dalla chemio. Aspetti, questi, più importanti che mai visto l’andamento della pandemia. «Il test è sicuramente uno strumento importante per impostare lo schema terapeutico» assicura Lucia Del Mastro, responsabile della Breast Unit dell’IRCCS Ospedale Policlinico San Martino di Genova. «Lo prova uno studio, il TAYLORx, che ha coinvolto più di 10.000 donne e ora noi oncologi speriamo che l’accesso venga garantito al più presto in tutta Italia».
Quando sono utili
Ma quante donne possono beneficiare dell’Oncotype? Non poche. Nel 2019, le stime dicono che sono stati diagnosticati circa 53mila casi di tumore del seno. Di questi, circa sei su 10 hanno una forma ER +/HER2 -: significa che la proliferazione delle cellule tumorali è legata agli ormoni femminili e che non è presente il recettore (HER2 per l’appunto) che rende il tumore molto più aggressivo. In questi casi, se la diagnosi è precoce, la terapia prevede l’intervento chirurgico per asportare il nodulo, l’analisi del linfonodo sentinella e una terapia ormonale associata a una eventuale chemioterapia. Se c’è incertezza sulla cura entra in gioco il test genomico, che viene eseguito su un campione di tessuto tumorale prelevato durante l’operazione. «In queste pazienti senza metastasi ai linfonodi ascellari il test ci dice se il rischio di recidiva a nove anni di distanza dalla diagnosi è basso e se la chemio è evitabile perché non dà benefici aggiuntivi» dice Del Mastro.
La situazione italiana
Il test Oncotype ha un curriculum di tutto rispetto. I risultati dello studio TAYLORx hanno fatto sì che venisse inserito nelle linee guida americane di Asco, in quelle europee di Esmo e nelle nostre nazionali di Aiom. Significa, in sostanza, che tutti gli oncologi a livello mondiale l’hanno ritenuto valido, tanto che oggi viene rimborsato nel Regno Unito e in molti Paesi dell’Unione Europea, e negli Usa è l’unico rimborsabile dalle assicurazioni sanitarie. L’Italia in questo è l’ultima ruota del carro. Alla Lombardia e alla provincia di Bolzano a breve si aggiungerà la Toscana e si stanno muovendo in modo indipendente anche la Sardegna e il Lazio. Nelle altre Regioni, alcuni ospedali forniscono il test gratuitamente facendosi carico del costo e altri coinvolgono le donne in studi clinici. «Chi paga le conseguenze della situazione attuale è la paziente» dice Giordano Beretta, presidente Aiom, l’associazione nazionale degli oncologi. «Se una malata è in cura in un centro oncologico lombardo ed è candidata al test ma proviene da un’altra Regione, al momento deve farsi carico del costo dell’esame perché la sua Asl non lo rimborsa. Questo non è ammissibile: l’esame dovrebbe essere ugualmente disponibile in tutte le Regioni e con indicazioni omogenee così da potere avere un uso oculato dei budget ospedalieri». L’Aiom intanto ha stilato un documento sui test genomici, da sottoporre a interlocutori politici per una valutazione di costi e benefici e la loro applicazione su tutto il territorio.
La carica dei nuovi test
Per quanto riguarda il tumore del seno, Oncotype non è l’unico test genomico, ma fa parte di un pool di esami che hanno il comune obiettivo di ottenere un risparmio in termini di salute e di risorse economiche. Come MammaPrint che valuta i benefici della chemio nel caso delle due forme più diffuse, (ormono-dipendenti e non ormono-dipendenti) quando non ci sono più di tre linfonodi intaccati dalla malattia. Oppure EndoPredict che prevede il rischio di recidiva nelle donne in pre e in postmenopausa che hanno alle spalle almeno cinque anni di terapia ormonale e una diagnosi da non più di 10 di tumore ormono-dipendente e con al massimo tre linfonodi positivi. Il test arriva anchea stimare la possibilità di interrompere la cura ormonale. Infine, il Breast Cancer Index, utile a distanza di 5-10 anni dalla diagnosi nel caso di carcinoma mammario ormono-dipendente, con linfonodi negativi. «Tutti sono in grado di dare indicazioni sull’aggressività biologica del tumore» conclude la professoressa Del Mastro. E c’è da sperare che diventino sempre di più esami di routine.
Ecco perché le malattie aumentano in tutto il mondo
I casi di tumore al seno sono in aumento in tutto il mondo. Lo svela uno studio condotto da un gruppo di ricercatori canadesi e appena pubblicato su The Lancet Global Health. La ricerca ha analizzato l’andamento della malattia in 41 Paesi nell’arco di 14 anni. «La maggiore diffusione del tumore nelle donne over 50 indica il potenziale ruolo di alcuni stili di vita e fattori che tendono ad aumentare nella popolazione femminile» sottolinea l’oncologa Lucia Del Mastro. «È un dato che impone un intervento di sanità pubblica mondiale per modificare le abitudini dannose e ridurre così l’incidenza della malattia. Oggi molti lavori scientifici ci stanno dimostrando che il rischio aumenta sensibilmente in caso di obesità, sedentarietà e consumo di alcol, quest’ultimo sempre più elevato tra le donne». Le soluzioni sono alla portata di tutti, quindi. A partire dalla dieta mediterranea, che significa, per esempio, meno carne e prodotti dolciari a favore di legumi e verdure. O dal riprendere a camminare e salire le scale a piedi, anziché usare i mezzi e l’ascensore. «Lo studio rivela anche dati che devono incentivare la ricerca sulle under 50» continua l’esperta. «Emerge infatti un incremento dell’1% annuo di casi tra le più giovani, in particolare in Italia, Francia, Norvegia e Nuova Zelanda. In parte si può spiegare con il fatto che le donne iniziano i controlli prima, ma potrebbe dipendere anche dalla minore propensione ad avere figli, o ad averli tardi, e da una scarsa abitudine all’allattamento al seno».