C’è vita dopo la morte? Su Facebook, sicuramente sì. Si calcola che ogni giorno muoiano 33.000 utenti e che nel 2098 sul popolare social network – sempre che esista ancora – ci saranno più morti che vivi. Che fine fanno i loro account? La creatura di Mark Zuckerberg è solo un esempio, perché da Instagram a DropBox, passando per una semplice GMail, ci iscriviamo negli anni a decine di servizi, dove riversiamo tonnellate di parole, immagini, link, che fanno parte a tutti gli effetti della nostra vita, anche se solo in versione “digitale”.
Ma cosa succede quando l’esistenza, quella reale, termina?
«Nessuno ci pensava, agli esordi di Internet. Ma ora la gestione di questi dati è un problema» ammette Davide Sisto, tanatologo ricercatore all’università di Torino e autore di “La morte si fa social” (Bollati Boringhieri). E infatti la cronaca è sempre più affollata di casi controversi, sia dal punto di vista etico e sociale sia da quello economico.
Solo guardando agli ultimi mesi, va ricordato il caso del canadese Gerald Cotten, scomparso senza lasciare ad altri le password della piattaforma di criptovalute da lui fondata, con danni per oltre 150 milioni di dollari. O quello della madre torinese che, per mesi, aveva continuato ad aggiornare il profilo del figlio 15enne morto. Finché Facebook l’ha bloccata: l’account doveva diventare solo “commemorativo”.
Quali diritti e doveri ha chi resta, rispetto al patrimonio digitale lasciato da chi non c’è più?
In Italia c’è una legge chiara. Come spesso accade per le tematiche imposte dall’avanzamento tecnologico, sull’eredità digitale le leggi dei vari Stati si muovono in ordine sparso. Ma, per una volta, l’Italia non è indietro. Anzi. «Nel 2018 siamo stati fra i primi a recepire il nuovo regolamento europeo sulla privacy. Uno dei principi cardine è che parenti ed eredi di un defunto hanno il diritto di accedere ai suoi dati o di chiedere la cancellazione dell’account» spiega l’avvocato Alessandro D’Arminio Monforte, dello studio legale NetworkLex.
Esistono alcuni distinguo che, talvolta, si scontrano con la pratica quotidiana: accedere ai dati, come nel caso della signora torinese, significa consultarli, non continuare a utilizzarli o, addirittura, alterarli a posteriori. «La donna era in buona fede, ma Facebook ha agito correttamente in base alle condizioni contrattuali, quelle che ciascuno di noi accetta ogni volta che si iscrive a un social o si apre una casella di posta» continua Monforte. «Non siamo abituati a pensarci, però questi servizi non sono di nostra proprietà, semplicemente li stiamo utilizzando».
Si può nominare un “successore” per gli account
Come per qualsiasi altro bene di cui disponiamo, è utile pianificare per tempo la nostra eredità. Sia per evitare controversie di tipo patrimoniale, anche se su questo punto le leggi sono molto chiare (vedi il box a fianco), sia per evitare ai nostri cari fatiche e dolori aggiuntivi. Negli Stati Uniti la pratica è già diffusa, con tanto di manuali e corsi, ma la maggior parte delle opzioni sono accessibili anche da noi.
Google, per esempio, consente di impostare la funzione “gestione account inattivo”, indicando una persona alla quale inoltrare le nostre password se non accediamo ai suoi servizi (da GMail a YouTube) per un certo numero di giorni deciso da noi.
Su Facebook e Instagram, invece, possiamo nominare un contatto che elimini il nostro profilo in caso di morte. Per quanto riguarda gli smartphone, dai quali ormai controlliamo conti correnti, mutui, shopping, viaggi e prenotazioni ospedaliere, esistono servizi a pagamento, come eLegacy, con cui lasciare assie- me alla password disposizioni scritte, aventi valore legale, su ogni singola voce.
Conviene curare la propria privacy
Questioni giuridiche a parte, l’argomento “morte” su Internet assume forme diverse. «Si va dalla più semplice, come il Rip che scriviamo sui social per commemorare qualcuno, a vere ossessioni come l’abitudine a sbirciare le bacheche dei defunti o a insultarli» conclude Davide Sisto. Come difendersi? «L’antidoto non può essere che la cautela: tuteliamo la nostra privacy. Evitiamo gli account aperti ai commenti. E se una foto, una frase, una debolezza ci sembrano personali, teniamoli per noi. Perché ogni dato ci sopravvive, e può far soffrire chi è rimasto».