Tra immigrazione fuori controllo e tensione anti-stranieri in Germania, scricchiola uno dei pilastri dell’Europa unita: l’area Schengen. Quella zona di libera circolazione, che abbraccia 26 Paesi, in cui è (era) possibile muoversi senza barriere. Prima Germania e Austria, lo scorso autunno, poi la Francia colpita dagli attentati di Parigi, ora è il turno dei Paesi scandinavi di dire “basta”. L’assenza di frontiere è troppo rischiosa e bisogna tornare a stringere le maglie. Vediamo di capirci di più.
Che cos’è il trattato di Schengen La convenzione, che prende il nome dalla cittadina lussemburghese in cui è stata firmata nel 1985, prevede che i cittadini e le merci dei Paesi aderenti possano circolare liberamente senza il controllo dei documenti, sia alle frontiere stradali sia nei porti, aeroporti o nelle stazioni ferroviarie. È entrata in vigore progressivamente a partire dal 1993 e oggi conta 26 Stati membri, tra cui l’Italia, che però non corrispondono esattamente agli Stati dell’Unione europea. Svizzera, Islanda e Norvegia, infatti, sono fuori dall’Ue ma hanno aderito. Mentre Gran Bretagna, Irlanda, Croazia, Romania e Bulgaria, sono comunitari ma hanno scelto di non farne parte. Il Trattato, modificato appositamente nel 2012, prevede però che ogni Stato possa sospendere questa libera circolazione anche per sei mesi, in casi eccezionali. Proprio ciò che sta accadendo.
Perché il trattato di Schengen è andato in tilt La Francia ha riattivato i controlli dal 13 novembre, dopo gli attentati di Parigi. Vengono condotti a campione, non a tutti, ma Parigi per ora non vi rinuncia. La Germania vi ha ricorso a settembre, dopo l’ondata di profughi in arrivo dai Balcani, salvo poi tornare alla normalità. E oggi sono i Paesi scandinavi a muoversi. La Svezia, solo negli ultimi tre mesi del 2015, ha accolto115mila profughi e ha detto chiaramente che non ce la fa più. La Danimarca teme di essere invasa dal confine tedesco. Mentre la Norvegia ha detto che rimanderà indietro i profughi che non siano già stati controllati e dotati di Visto da uno dei Paesi Schengen. Tutti, in sostanza, hanno deciso di rialzare le frontiere e chiedere i documenti a chi entra. Sperano, così, di poter selezionare in anticipo quelli che davvero sono disperati richiedenti asilo, e di allontanare invece i clandestini comuni o, peggio ancora, i possibili terroristi.
Il fallimento Ue A spaventare i Paesi del nord Europa non è solo il numero dei profughi, quanto il sostanziale fallimento dei piani di Bruxelles. A settembre il Consiglio europeo esultava per aver deciso una sorta di equa distribuzione di 160mila migranti (soprattutto siriani, eritrei e iracheni) quasi tutti ammassati in Italia e Grecia. Finora appena 272 rifugiati sono stati ricollocati (190 dall’Italia e 82 dalla Grecia). Ma soprattutto, le coste sono ancora un colabrodo. Il 2015 si è chiuso con più di 1 milione di sbarchi. Ed è una magra consolazione, per noi, che ormai le rotte degli scafisti scelgano la Grecia, che a dicembre ha registrato 103.388 arrivi contro i 9.395 dell’Italia. Scandinavi, ma anche olandesi, inglesi e tedeschi, non si fidano dei controlli operati dei Paesi mediterranei, compresa l’Italia, che sono obbligati a schedare e registrare i profughi appena arrivano, gestendo da soli la valutazione sulle richieste di asilo. Una procedura difficile e che molti clandestini rifiutano, al punto da dare vita e rivolte come successo in questi giorni a Lampedusa.
Il caso tedesco A infiammare il clima ci si è messo anche l’episodio di Colonia, dove, la notte di Capodanno, centinaia di donne sono state molestate e derubate da circa un migliaio di persone per lo più arabe o nordafricane. Si trattava probabilmente di uomini già residenti in Germania, non di profughi, ma tanto è bastato a riaccendere le proteste in un Paese che in pochi mesi si è fatto carico di centinaia di migliaia di disperati. Berlino giura che non rinuncerà a Schengen. Ma il segretario di Stato all’immigrazione, Ole Schroder, ha ammesso che l’Europa per ora non funziona, e che “sono necessarie misure da parte dei singoli Stati”. Avallando, di fatto, la scelta di quegli Stati che hanno deciso di smarcarsi. Secondo il presidente della Commissione Ue, Jean-Claude Juncker, la soluzione arriverà con la creazione di una polizia di frontiera europea capace di controllare meglio sia le coste sia i valichi a terra. Ma ha ammesso che, nella migliore delle ipotesi, potrebbe essere pronta entro giugno.