Vicky Martin è inglese ed è una tatuatrice molto particolare: ridisegna areole e capezzoli sui seni delle donne operate di cancro alla mammella. Quando a novembre ha protestato davanti alla sede di Facebook, a Londra, perché il social oscurava le immagini del suo lavoro e le censurava come fossero foto porno, il suo nome ha fatto il giro del mondo. E l’enorme pallone a forma di seno portato in corteo da lei e dalle sue sostenitrici è diventato il simbolo di tutte le donne operate, del loro diritto a riprendersi il proprio corpo, per ricominciare.
Il tattoo che non c’è
Non è sempre facile riuscirci, perché nei fatti questo diritto non sempre viene tutelato. In Italia, per esempio, per le pazienti oncologiche è quasi impossibile trovare chi pratichi questo particolare tattoo che tecnicamente viene chiamato dermopigmentazione del plesso areola capezzolo. Dopo una circolare del ministero della Salute, dallo scorso maggio le estetiste non possono più eseguirla. Sulla carta il servizio dovrebbe essere svolto dal personale sanitario ma i medici e gli infermieri che hanno la formazione per farlo sono una rarità, e ora si aspetta che il Tar decida sui ricorsi presentati, a fine gennaio.
Quel che è certo è che in questi casi non parliamo mai di un mero vezzo estetico. «Il tatuaggio è il tassello finale di un lungo percorso verso il ritorno alla normalità, dopo lo shock della mutilazione, le chemio, anni di menopausa forzata» spiega Brigida Stomaci, estetista specializzata in dermopigmentazione. «Chi arriva a questo punto ha già ricostruito la mammella, eppure molte delle donne che venivano da me non riuscivano ancora a guardarsi allo specchio. Quella parte mancante ricordava loro ogni giorno tutto quello che avevano passato. Ed era bellissimo quando, a lavoro ultimato, vedevano che il loro seno era finalmente come quello di tutte le altre».
Tra le donne operate di mastectomia solo una su quattro conosce i diversi trattamenti disponibili per la ricostruzione del seno
(dato diffuso in occasione dell’ultimo Bra Day Italy)
Un bisogno più forte di tutto: la plastica ricostruttiva
In Italia il carcinoma della mammella è la forma tumorale più diffusa sotto i 50 anni. Colpisce ogni anno 50.000 donne e per molte cancellare il ricordo della paura e della sofferenza vissute passa anche attraverso questo, l’attenuare i segni che la malattia lascia sul corpo. Prima ancora di iniziare le terapie, l’89 per cento delle pazienti vuole avere dati e informazioni sui risultati della plastica ricostruttiva. «Quando, la sera prima della mastectomia, mi dissero che avrebbero tolto tutto, la presi malissimo» racconta Giulia che ha 39 anni e a 34 ha scoperto un carcinoma mammario. «Ero preparata ad affrontare la malattia, ma non quello. Un mese dopo, quando mi hanno tolto le bende, mi sono guardata a lungo e ho deciso che avrei fatto tutto quello che c’era da fare per riprendermi quello che mi era stato tolto. Rivolevo il mio seno, le mie camicette: mi sono sottoposta a cinque interventi. Mi è costato dolore e fatica, ma oggi mi sento di nuovo io, più forte. L’avrei fatto anche se mi fossi ammalata a 70 anni».
A molti suona strano che chi, come Giulia, ha già visto tanti ospedali voglia sottoporsi a un nuovo calvario fatto di aghi, punti e anestesie. Ma non lo è affatto. Oggi accollarsi le stimmate del carcinoma non è più il prezzo necessario da pagare per la sopravvivenza e anche i medici ne sono più consapevoli. «Grazie a Umberto Veronesi, che per primo ha capito quanto fosse importante questo aspetto, l’approccio è cambiato. A oggi si riesce a evitare una mastectomia nel 75, 80 per cento dei casi. Ma se questo non è possibile in molti ospedali e centri privati la ricostruzione avviene nel corso dello stesso intervento, oppure viene eseguita dopo. Il chirurgo lavora per donare ai seni un aspetto sempre più naturale» spiega Roy de Vita, primario della Divisione di Chirurgia plastica dell’Istituto tumori Regina Elena di Roma.
Via ogni segno con il laser
«L’86% di chi si ammala è viva a 5 anni dalla diagnosi. È una conquista importante che porta in primo piano la battaglia per tornare alla normalità. Recuperare il proprio aspetto, sentirsi di nuovo belle aiuta ad accettare e superare quello che è successo» aggiunge Daniela Bossi, presidente del comitato milanese dell’Associazione nazionale donne operate al seno, e chirurgo senologico all’ospedale Sacco di Milano. E non è più solo chi ha dovuto subire l’asportazione di un seno a chiedere un intervento estetico.
Lo spiega bene Norma Cameli, responsabile dell’ambulatorio di Dermatologia estetica dell’istituto San Gallicano di Roma: qui si praticano sedute di laser q-switched per sbiadire i segni lasciati dalla radioterapia, cioè i tatuaggi che vengono fatti durante i trattamenti per “mirare” i raggi. «Quei piccoli puntini possono diventare un marchio, un segno che impedisce di buttarsi l’esperienza alle spalle, e sempre più donne desiderano cancellarli» racconta l’esperta. «Il trattamento si può fare anche in ospedale gratuitamente, spia del fatto che è considerato essenziale per le pazienti. Ma a oggi sono poche le strutture che si sono dotate del macchinario perché le direzioni sanitarie non lo considerano prioritario. C’è ancora un po’ di strada da fare perché il diritto a chiudere quella porta diventi realtà».
Non in tutti gli ospedali
La chirurgia estetica oggi permette alle donne operate di tumore di recuperare la giusta simmetria tra i seni, riconquistare tono e dare tonicità alla pelle. Lo fa con dei trapianto di grasso e ricostruendo il capezzolo quando necessario. La maggior parte di queste operazioni sono inserite nei Lea, le prestazioni e i servizi che il Servizio sanitario nazionale è tenuto a fornire a tutti i cittadini. Ma questi interventi non vengono eseguiti ovunque. Una sicurezza in questo senso arriva dalle Breast Unit, i centri di senologia pubblici o privati convenzionati, presenti in tutte le regioni, dove le malate vengono seguite da più specialisti che operano in équipe (l’elenco si trova sul sito di Europadonna).