Nella fotografia c’è un bambino molto piccolo e molto serio che regge un palloncino rosso a forma di cuore con una scritta bianca “Mamma ti voglio bene”. La scritta è un po’ velata dal riflesso del vetro della stanza sterile del Centro Trapianti Midollo Osseo del Policlinico di Milano attraverso cui la mamma lo fotografava: lui fuori, lei dentro. «Era il mio compleanno, mi sentivo esausta ma mi ero truccata per lui. Aveva solo due anni e mezzo e non poteva abbracciarmi, comunicavamo con un citofono, la mamma era un fantasma dietro a un vetro e lui non piangeva, si sforzava per me».
Cecilia Malugani, 45 anni, ha conservato quella foto nel telefonino per quasi sette anni. «Giovanni adesso frequenta la quarta elementare, Federico la seconda». Federico è il bebè cicciottello e bellissimo in salopette che compare in un’altra fotografia sempre un po’ appannata dal vetro della stanza sterile. Cecilia si è ammalata di leucemia mieloide acuta due mesi dopo averlo partorito ed è viva perché il trapianto di midollo è andato bene: ha avuto la fortuna che suo fratello fosse un donatore compatibile.
«La mia vita è diventata l’ospedale. Tre chemioterapie pesantissime, l’isolamento. Mia madre ha traslocato da noi, gestiva la casa, i bambini. I miei suoceri arrivavano nel fine settimana da Genova per darle il cambio. Mio marito dopo il lavoro correva da me in ospedale. Una macchina organizzativa così complessa che nel famoso citofono parlavamo solo di figli, pappe, acquisti da fare, mai della mia malattia: eravamo due soldati in marcia. Le lacrime me le concedevo quando venivano a trovarmi le mie amiche. Dicevo: piangiamo cinque minuti e poi mi racconti cosa stai facendo di bello. Una notte sono stata così male che ho pensato di non farcela e ho deciso: se domani mattina sono viva, smetto di lavorare. Ero project manager in un’azienda e non avevo mai immaginato di fare solo la mamma ma a distanza di sette anni non mi sono pentita della mia scelta: dopo quello che abbiamo passato, i miei figli hanno diritto a stare con me e io a godermi ogni giorno con loro».
Una consapevolezza comune a molte donne che hanno vissuto questa esperienza. «Dopo una malattia così importante cambiano le priorità e i ruoli che vogliamo assumere. Il tumore è una rottura autobiografica, non si torna indietro, ci si ricostruisce con equilibri nuovi e con più coscienza della propria precarietà, cambiano i progetti a lungo termine e anche i rapporti, molte donne mi dicono: ero sempre l’ultima della fila, ora vorrei pensare anche un po’ a me e noi lavoriamo proprio su questo. Anche perché smettere di sacrificare sempre i propri bisogni per quelli degli altri, che è un tipico atteggiamento femminile, diminuisce lo stress e fa funzionare meglio il nostro sistema immunitario» spiega Alice Viola Giudice, psicoterapeuta nella Divisione di Psiconcologia dello IEO di Milano. Cecilia ha imparato a farlo. «Mi accorgo che dopo il tumore sono meno disposta a compromessi, a transigere sui miei principi, a frequentare persone che non mi piacciono. Voglio coltivare i miei valori, fare le cose che amo, in un certo senso è come se fossi più me stessa. C’è chi è rimasto al mio fianco e chi no, con mio marito il rapporto è diventato ancora più forte».
Lorenzo Michetti, 43 anni, è il marito di Cecilia, per tutto il tempo in cui lei è stata all’ospedale ha dormito abbracciato a Giovanni, la culla di Federico al suo fianco, il calore dei corpi dei bambini per allontanare il terrore della morte: «Vedere Cecilia così razionale durante la malattia mi ha aiutato molto. C’è stato un momento in cui per procedere al trapianto hanno dovuto azzerarle l’efficienza del sistema immunitario, era magrissima, senza capelli e senza colori, non riusciva nemmeno a deglutire ma non si dava per vinta. Mi straziava ma non potevo certo cedere io, c’erano i bambini a cui pensare e poi non ero solo, avevamo una rete di supporto eccezionale. Ora non parliamo quasi mai della malattia però io mi sento sempre un po’ ansioso, faccio fatica a stare lontano da loro. Abbiamo vissuto una rivoluzione, non è che abbiamo mollato tutto e aperto un chiringuito, facciamo la stessa vita ma niente è uguale a prima».
Serena Corvino, psicoterapeuta al Centro Trapianti Midollo Osseo del Policlinico di Milano aggiunge: «Dopo la malattia cambiano le dinamiche famigliari, cambiano gli uomini ma cambiano le donne. I giovanissimi spesso si lasciano, è una prova troppo grande per loro. Nelle coppie adulte se il marito o il compagno era già presente lo rimane, se c’era della distanza si acuisce. Il tumore mette a nudo il nucleo delle cose, se non ci sono rapporti solidi le coppie scoppiano. Anche perché si tratta di malattie che cambiano la nostra fisicità, il marito e la moglie si ritrovano nell’intimità a fare i conti con un corpo diverso». Cecilia ancora una volta è stata “fortunata”, è rimasta quella di prima, con la sua pelle rosa chiaro e i suoi bellissimi capelli biondi: «Dopo la prima chemioterapia non ho voluto aspettare che mi cadessero e li ho tagliati a zero. Sono tornata a casa senza la parrucca e Giovanni ha sussurrato: “Mamma come sei bella” ma guardava da un’altra parte. Dopo il trapianto la prima cosa che mi ha detto è stata: “Ora però te li fai crescere”. Da allora tutte le volte che vado a tagliare i capelli lo avviso».
Lo spettacolo teatrale
I fuori sede è la prima opera teatrale dedicata all’esperienza del tumore in giovane età. In tournée in questi giorni, dopo Milano e Roma andrà in scena il 15 dicembre a Bari, il 28 febbraio 2019 a Pavia, per arrivare a Napoli e poi nuovamente a Milano. La trama: 10 studenti universitari si trasferiscono nello stesso appartamento, una magica avventura interrotta dalla scoperta che uno di loro si è ammalato di cancro. Ideata dall’Associazione Pancrazio (www.pancrazio associazione.org) e scritta da Maria Teresa Carpino con Gigi Palla e Giacomo Perini, è ispirata alla storia vera dello stesso Giacomo, che nel 2014 si è ammalato di osteosarcoma.