Questo racconto ha ricevuto una Menzione d’onore al “Concorso Letterario Nazionale Memorial Miriam Sermoneta – IX edizione 2021”. La nostra giornalista l’ha scritto per regalarlo alla protagonista, Barbara Biasia, una lettrice che l’aveva cercata nel 2018. Dal loro incontro è nata una serie di articoli – sul sito e sul giornale – dedicati al tumore al seno metastatico, che colpisce in Italia circa 35.000 donne, e di cui soffre anche Barbara. Nella motivazione del premio, circa la malattia affrontata dalla protagonista, si legge: «Una lotta tenace da cui esce una persona nuova, “più sfaccettata” e più forte, tanto da farsi sostegno ed esempio per altre donne colpite dalla stessa malattia. Un messaggio positivo narrato con efficacia».
«Il fiato corto, la testa pesante, gli occhi inondati da tanta luce così rarefatta che mi sembra la quinta di un palcoscenico. Su quel palco ci sono io, con i muscoli che urlano ma il cuore leggero perché oggi, ancora in chemio, sono riuscita a salire dopo tanto tempo al lago di Fond a 2.439 metri. Un paradiso di profumi e colori sopra casa mia a cui si arriva dopo uno strappo nel bosco e poi via tra ruscelli, rododendri e sassi lucidi e fragorosi fino a lì, a quello specchio d’acqua alpino, più grigio che azzurro, dove si riflette la roccia dura e aspra del tetto d’Europa. Le mie Alpi, le cime aguzze e possenti della Val d’Aosta.
In quello specchio che non vedevo da anni, dopo tante cure e chemio e radio, oggi mi guardo con lo zaino in spalla, il foulard in testa e i miei bastoni, ma non mi vedo. Dov’è la Barbara di un tempo? Dov’è quella donna in salute, che si pensava come un fiume ormai placido, con i figli già grandi e tanti anni tranquilli ancora davanti? Quella Barbara non c’è più. La diagnosi di tumore al seno nel 2009 se l’è portata via, quando la malattia ha segnato lo spartiacque violento tra ciò che c’era prima e ciò che è venuto dopo. Me lo ricordo benissimo quel giorno in cui l’idea della morte ha bussato alla mia vita e io ho perso la sensazione di immortalità, quel gusto tutto femminile che abbiamo noi donne di pensarci capaci di fare tutto, di risolvere tutto, di esserci per tutto. Chissà perché. Non ci siamo neanche per noi stesse. E io quel giorno lì proprio mi sono persa, frantumata.
Tutto – dopo – è rotolato giù, come me nei miei andirivieni infiniti in fondovalle: l’intervento all’ospedale di Aosta, il gonfiore e il dolore al braccio, il tutore per sette anni, le cure, la perdita dei capelli, la chemio e la radioterapia. In mezzo, i figli piccoli, la loro scuola, il marito confuso, il lavoro perso. Quindi la diagnosi di fibromialgia, dolori in tutto il corpo, altri interventi dovuti a complicazioni e infine la comparsa, quattro anni fa, delle metastasi. Come avrei potuto sopravvivere a tutto ciò? Come avrei potuto trovare degli spiragli di normalità, come poter pensare di farcela, nonostante tutto? Dopo mesi di buio e baratro infinito, in cui ricordo solo di essermi lasciata vivere, un giorno ho aperto gli occhi con uno sguardo nuovo e mi sono guardata intorno. Vivo da 20 anni a Planaval, un pugno di case in Valgrisenche. Un villaggio da cartolina adagiato su un piccolo altipiano a ridosso di una cascata che con il suo fragore riempie il nostro silenzio di montanari. Avevo questa natura potente e spettacolare intorno. Avevo i miei due figli e il mio cane. Avevo le mie gambe e le mie braccia – i miei due motori. E così ho girato la chiave: li ho riaccesi e con Anna (una di quelle amiche che ti diventano sorelle e ti cambiano la vita), sono partita per i miei primi 100 passi con i bastoncini in mano. I 100 passi sono diventati ogni giorno un pezzettino in più finché a un certo punto sono riuscita ad arrivare qui, su questo lago. Il mio braccio pian piano è tornato normale. Ho tolto il tutore, sono dimagrita ma soprattutto ho capito che posso, possiamo farcela.
È vero, non c’è più la Barbara di un tempo, quella che si vedeva risolta come donna e mamma. Quella che era arrivata dalla raffinata Parigi a 17 anni odiando il rimpatrio del padre e aveva pensato che lì, in quella valle, sarebbe morta di noia e solitudine. Non è morta di noia, ha solo rischiato di morire annegandosi nel senso di sconfitta, in quei tanti inverni a combattere con il dolore, la paura e l’impotenza. Ora ce n’è un’altra di donna e io oggi posso vederla in questo specchio d’acqua mosso dal vento, dove sono ritornata con Anna e con l’ennesima chemio in corpo. E quella donna di 57 anni è più sfaccettata, un caleidoscopio colorato che riflette la luce in modi inaspettati, sorprendenti e taglienti anche per me. Perché da metastatica mi sono tinta i capelli di viola, fatta sei tatuaggi e ora insegno alle donne come me a prendersi tempo e attenzioni per se stesse, le accompagno a fare passeggiate di benessere e organizzo con l’ospedale momenti di aggregazione. In questi anni di cure, chemio e settimane tra i medici e gli infermieri, ho scritto un libro e aperto un blog. Ho scommesso su una rinascita che non è solo mia ma deve poter appartenere a tutte le donne colpite da tumore metastatico. Oggi la malattia si può guardare in faccia e curare, io lo sto facendo.
I miei capelli colorati sono diventati un lasciapassare in ospedale e in 10 anni sono riuscita a creare un fondo a sostegno delle donne come me: abbiamo regalato 10 tablet al reparto di oncologia, finanziato un servizio di make up per le donne oncologiche con estetiste specializzate, sono riuscita – dopo il Covid – a far riaprire il nostro reparto di oncologia, che ci era precluso da tempo. Ho semplicemente vissuto, tutto qui. Ho scelto di farlo. Mi è bastato cogliere le opportunità che la vita mi parava davanti. Senza pensare a cosa avrei potuto fare in un altro film, in un’altra storia. Perché il mio film e la mia storia oggi sono questi».
Questo racconto è stata una catarsi e mi ha riappacificato con il dolore
Pubblichiamo il commento su Facebook alla pubblicazione del racconto, scritto da Katia Botta, coach cognitivo
«Cara Barbara, ho letto “Quel lago sopra casa mia”. Sono 24 anni, da quando ho perso mia madre, che non leggo più articoli riguardanti questo tema, per lungo tempo ho avuto il rifiuto totale di tutto ciò che mi riconduceva al suo dolore fisico, emotivo, soprattutto il dolore e il senso di imbarazzo che prova una donna nel veder trasformato il proprio corpo, pensa che aveva vergogna di farsi vedere nuda, senza un seno a con una cicatrice devastante. Eppure non l’ho mai sentita lamentarsi, la fede e il santo rosario l’hanno accompagnata fino alla fine. Mia madre era una donna multitasking, si occupava e preoccupava per tutti, i suoi studi si fermavano alle elementari ma avendo letto molto di medicina ( la sua passione) parlava alla pari con i medici. Abbinando il pragmatismo della medicina al soprannaturale della fede è riuscita a dare un senso diverso alla sua nuova vita, e in seguito anche alla mia, ha continuato a fare le cose e vivere ma in modo diverso. Alla fine ho compreso che in fondo in fondo, ciò che dà forza è la vita stessa, la vita che assaporiamo ogni giorno con tutti i suoi gusti, la vita che viviamo con le nostre esperienze, la vita che sogniamo di vivere, la vita che ci inventiamo ogni giorno per sopravvivere al concetto di normalità della massa. Vita, una parola di 4 lettere che può racchiudere un tempo breve o lungo da vivere, ma senza retorica, vale comunque la pena di sperimentarla con tutte le sfaccettature, non dimenticando mai di averla ricevuta in dono e, come un regalo, si accetta per ciò che è e si ringrazia. Ho impiegato anni a comprendere la frase che spesso mi diceva mia madre quando procrastinavo: “Datte da fa’, a vita è nu muorzo” (Datti da fare, la vita è un boccone), da allora cerco di cogliere il bello anche nelle piccole cose, assaporo subito il boccone più buono nel piatto, se compro un paio di scarpe o un vestito lo indosso subito non aspettando l’occasione, ringrazio e chiedo scusa subito se ho sbagliato perché domani potrebbe non esserci. Grazie Barbara, ti ammiro come giornalista e come donna, non conoscevo questa parte della tua vita, il tuo articolo mi ha toccato profondamente, smuovendo qualcosa in me ha fatto modo che dopo anni riuscissi a parlare di mia madre, del tumore metastasico, come una catarsi mi ha riappacificata con il dolore e riportata alla realtà. Penso che ognuno di noi abbia un lago, un giardino, un luogo speciale che lo riporta a se stesso, e lo aiuta ad integrarsi al dono della vita che per quanto possa apparirci ingrata a volte, vale sempre la pena vivere, sperimentare, assaggiare e condividere…come un buon boccone. Buona Vita cara e ancora Grazie».