Ricordo tutto di quel giorno. Avevo 22 anni, stavo preparando l’esame di Diritto internazionale privato e processuale ed ero incantato da una ragazza che incrociavo ogni giorno in biblioteca: la mia vita adulta stava prendendo forma e, a dispetto delle insicurezze dei 20 anni, era una forma che mi piaceva. Poi un giorno cambiò tutto. Mi passai una mano tra i capelli, gesto vezzoso che facevo spesso, e me ne ritrovai una ventina tra le dita. Confusione. Corsi allo specchio del bagno, passai di nuovo la mano tra i capelli, nuove ciocche piovvero nel lavandino. Sgomento. Nella vita avevo già fatto i conti con qualche delusione estetica: avevo quattro fratelli che sfioravano il metro e novanta mentre io mi ero fermato pochi centimetri sopra il metro e settanta, avevo grandi orecchie a sventola, il mento sfuggente, le mani piccole, recentemente ero anche ingrassato di qualche chilo, ma i capelli…
Ero così fiero dei miei capelli. Biondi, lisci, setosi. Li avevo portati in tutti i modi, corti, lunghi, a scodella, sfumati, leccati stile Elvis Presley, scompigliati alla Damon Albarn, meditavo perfino di tingerli, platino, magari blu. E invece, di botto, scoprivo che sarei stato calvo. Forse non subito, forse ci sarebbe voluto qualche anno, ma sarei stato calvo. Giovane e calvo. Quello che avevo immaginato del mio futuro andava corretto alla luce di questa terribile epifania. La sto facendo lunga? Persino un po’ tragica? Forse, ma fu lungo e, sì, anche un po’ tragico il percorso per venire a patti con la caduta dei miei capelli. E ogni volta che sentivo frasi come «Beati gli uomini, che possono fregarsene dell’aspetto fisico», mi prendeva il nervoso e pensavo: se solo sapeste.
Perché il corpo è una casa: scoprirne le crepe, i malfunzionamenti o anche solo un angolo che non risponde al proprio sentire addolora qualunque inquilino, uomo o donna che sia. E io, a torto o a ragione, non mi riconoscevo in quella testa che andava svelandosi.
Oggi, alla luce del body positive, il movimento che invita ad accettare le proprie imperfezioni in forza del fatto che tali non sono, mi chiedo: sbagliavo? Esageravo il mio dispiacere? Credo di no. È vero, esistono influenze culturali e pressioni sociali che plasmano le idee estetiche dentro codici di bellezza spesso esclusivi e irraggiungibili, ma – alzo le mani – non riesco a negare che esista la bellezza e, soprattutto, il suo contrappeso, la bruttezza, quest’entità spaventosa che sempre più spesso ci sforziamo di negare. Mi sentirei un impostore, un meritevole impostore, ad affermare che siamo tutti belli così come siamo, quando invece so bene che, se mi mettessero in una stanza con Timothée Chalamet, Idris Elba e Damiano dei Måneskin, in un ipotetico sondaggio rivolto al mondo intero – Chi è il più bello? – farei fatica a raggranellare un solo voto, mentre non ci sarebbe dubbio che la domanda opposta – Chi è il più brutto? – mi vedrebbe campione. Tutto frutto di condizionamenti sociali? Quanto vorrei poterlo credere. E allora? Sono forse giustificati i commenti malevoli, le battute cattive che mi sono state rivolte? Per carità.
Non c’è un solo motivo per cui la mia calvizie, le mie orecchie a sventola, i chili messi in vita, la mia statura, debbano essere trasformati in argomenti di scherno. Eppure è successo, anche inconsapevolmente. Ricordo una ragazza che si lamentava di non poter mettere i tacchi quando usciva con me, le dissi: «Guarda che non mi dà fastidio se sei più alta», e lei: «Dà fastidio a me vedere come ti guardano gli altri». Insomma, se è vero che le donne subiscono una grandine di giudizi più robusta di quella riservata agli uomini, nemmeno questi ultimi sono graziati.
La verità? Abbiamo tutti bisogno di un riparo. Il movimento della body positivity ne offre uno importante, là dove esorta ad amarsi indipendentemente dai giudizi altrui, là dove chiede una maggiore rappresentatività della moltitudine dei corpi fuori dai canoni, là dove insomma combatte le storture della moda, della cultura, della società. Ma credo ci sia un riparo personale che, dolorosamente, possiamo alzare solo noi, senza spazzare via il desiderio o negando l’esperienza di un viso splendido o di un corpo luminoso, ma coltivando una consapevolezza – parola che mi piace di più di accettazione, che mi ricorda troppo lo sportello di un ospedale – una consapevolezza, dicevo, che affonda le radici non nella sabbia arida della convinzione illusoria che “siamo tutti bellissimi”, ma nel terreno fertile delle ferite che ci portiamo addosso, quelle che qualcuno chiama mancanze, imperfezioni, irregolarità.
È a queste che vorrei brindare, esibendole non come medaglie, ma come meravigliose vergogne (non mi spaventa questa parola, indica alla perfezione quello che ho provato) che un tempo mi hanno fatto piangere e oggi mi ricordano quanto posso essere debole e quanto posso essere forte, gli estremi entro cui si muove ogni vita al di fuori di un cartellone pubblicitario.