Era il 27 giugno 1980 quando un aereo DC9 della compagnia Itavia, decollato da Bologna e diretto a Palermo, scomparve dai radar poco prima dell’atterraggio e precipitò davanti all’isola di Ustica, senza lanciare segnali di emergenza. Morirono 81 persone, fra passeggeri e membri dell’equipaggio. Sono passati 40 anni da quella strage eppure, alla domanda «Cosa è successo quella notte?», siamo ancora costretti a rispondere attingendo a una verità giudiziaria monca, che ha individuato (forse) le cause dell’incidente ma non i colpevoli. 

I cieli erano troppo trafficati

«Il copione purtroppo è lo stesso al quale l’Italia è abituata: insabbiamenti, depistaggi, mezze verità e processi lunghissimi non in grado di incastrare i responsabili» spiega Cora Ranci, ricercatrice e autrice di “Ustica. Una ricostruzione storica” (Laterza). «A differenza di altri misteri che hanno colpito il nostro Paese nello stesso periodo, dalle bombe agli attentati, la politica interna però non c’entra. Non conosciamo il chi, ma il perché di quella esplosione in alta quota va cercato nel caos internazionale che aveva come epicentro il Mediterraneo». Erano trafficati, quella sera, i cieli italiani. Troppo. «I radar rilevarono la presenza di uno o più aerei militari già sopra la Toscana, poco dopo il decollo» continua Ranci. «Probabilmente si trattava di velivoli di paesi membri della Nato: anni dopo l’Alleanza atlantica ammetterà che quella sera vi erano 21 tracce di aerei militari in volo sul Tirreno». Ne facevano parte caccia americani, ma forse anche inglesi e francesi. C’era un aereo fantasma che volava sotto la pancia del DC-9 Itavia, si sospetta fosse libico. Dalle indagini è infatti emerso che era in vigore un accordo segreto tra Libia e Yugoslavia, in base al quale aerei dell’aviazione di Tripoli si recavano negli aeroporti yugoslavi per la manutenzione sorvolando i cieli italiani e sfruttando le carenze del nostro sistema radaristico». Poco prima dello schianto, infine, un altro aereo non identificato si affiancò per qualche minuto al DC9. Che dunque, senza saperlo, volò per quasi 2 ore all’interno di uno scenario di guerra non dichiarata. 

L’aereo fu abbattuto da un missile senza “mandante”

«Le lunghe e complesse indagini sono riuscite ad accertare che ad abbattere il DC9 fu un missile» continua Ranci. Insomma, è probabile che l’areo civile sia finito nel bel mezzo di uno scontro a fuoco. Chi sparò a chi e perché, tuttavia, non è mai stato scoperto. Anche perché i depistaggi sono iniziati subito dopo l’incidente. «Finché i resti del DC9 non vennero ricomposti si parlò di un guasto, poi di un attentato terroristico, comunque di un’esplosione interna» continua la ricercatrice. «Sparirono registrazioni, appunti e testimonianze, mentre dai ministeri e dagli apparati militari arrivavano versioni discordanti». I misteri non finiscono qui: appena 3 settimane dopo la strage, sull’altipiano della Sila vengono ritrovati i resti di un Mig dell’aviazione libica. Era quell’aereo il vero bersaglio? O era il cacciatore? Non sappiamo neppure questo, perché il rottame fu portato via in tutta fretta dai servizi segreti italiani. Non solo: nel corso degli anni, 13 testimoni di quella notte sono morti in circostanze sospette.

I depistaggi iniziarono subito

A 4 decenni di distanza l’ipotesi più gettonata resta quella del “fuoco amico” con i velivoli Nato forse convinti che a bordo del convoglio libico in volo sulla Calabria ci fosse anche il nemico numero uno di allora, ossia Muhammar Gheddafi. L’interesse politico dell’Italia a non scoperchiare una situazione che la dipingeva come succube di potenze straniere ha fatto il resto. «In sede civile è stata stabilita la mancata protezione del nostro Paese verso un suo aereo civile, con Difesa e Trasporti che hanno dovuto risarcire i familiari delle vittime e la compagnia Itavia fallita dopo il disastro» ricorda Ranci. «Ufficialmente la strage rimane senza responsabili, anche se il fascicolo è tuttora aperto».

Le donne hanno tenuto viva la memoria

Se dopo 40 anni quei fatti non sono ancora caduti nel dimenticatoio, lo dobbiamo soprattutto alla tenacia di alcune donne. C’è Daria Bonfietti, che nei cieli di Ustica ha perso il fratello Alberto e guida l’associazione dei familiari delle vittime. C’è Clara Modesto, vigile del fuoco, che nel 2007 era l’unico membro femminile del team che organizzò il trasporto dei resti del DC9 dall’aeroporto militare di Pratica di Mare fino a Bologna. «Lungo il percorso la gente applaudiva il convoglio» ha ricordato anni dopo. C’è Raffaella Bruni, che nella città emiliana – ferita a sua volta in quell’estate 1980 da una strage densa di misteri e depistaggi – ha fatto nascere il Museo della memoria, uno dei perni su cui ruoteranno le celebrazioni di questo anniversario (vedi box a destra). «Mantenere vivo il ricordo è fondamentale» conclude Ranci. «Se non fosse stato per la tenacia di parenti e giornalisti, per questa come per molte altre stragi, non ci saremmo avvicinati così tanto alla verità