l giorno in cui mi hanno iniettato la prima dose di vaccino è stato uno dei più belli della mia vita. Quello in cui ho scoperto che potevo prenotare il vaccino per mia figlia 13enne, invece, uno dei più tormentati. In quel momento, ho dovuto ammettere a me stessa, ai miei amici, e adesso a voi lettori, che il solido edificio del mio essere sì-vax assomigliava piuttosto a una casa di fango, da ricostruire a ogni acquazzone, più solida di prima ma mai definitiva.
La mia adesione alla campagna vaccinale è stata immediata e razionale. A puntellarla, senza che me ne accorgessi, sono stati i racconti dal fronte degli ospedali in questo anno e mezzo di pandemia, gli studi statistici sull’efficacia dei vaccini e il confronto con i rischi legati a medicinali che assumiamo con la stessa serenità con cui ingoiamo una caramella. Ma anche la conta dei giorni perduti nelle relazioni preziose tra nonni e nipoti, genitori anziani e figli. E il bisogno di ritrovare una socialità in cui la reciproca espansione non fosse annichilita dalla paura. Così mi sono ritrovata seduta dietro il pannello divisorio di un enorme hub vaccinale senza averci dovuto pensare, sorridendo della tenera premura degli Alpini: con me non era necessaria, non avevo alcuna paura.
L’edificio delle mie certezze è crollato di fronte alla pagina web che mi chiedeva il codice fiscale di mia figlia per restituirmi una data di somministrazione. Inizialmente ho dato la colpa all’enorme confusione fatta sui vaccini a vettore virale, AstraZeneca e Johnson, di cui cambia continuamente la prescrizione in base alle fasce d’età, ma che comunque non sarebbero stati iniettati a mia figlia. Ho dato la colpa ai virologi
che continuano a contraddirsi tra loro. Agli errori della comunicazione pubblica e a quelli dei principali media. Poi mi sono chiesta se avrei preferito un’informazione che spacciasse certezze lì dove non ce ne sono e che censurasse notizie di poco valore statistico, come gli effetti collaterali dei vaccini, ignorandone la portata emotiva. Forse no. Forse per la prima volta siamo stati testimoni involontari del procedimento scientifico nella sua massima trasparenza. Partenze, frenate, marce indietro e inversioni a U ci hanno messo di fronte alla consapevolezza che la medicina è la scienza dell’incerto. Che si costruisce con una raccolta dati continua. E che noi siamo parte di quel processo, non i semplici fruitori del risultato.
Mia figlia farà il vaccino. E non è la fiducia incondizionata nella scienza che mi ha convinto. A convincermi è stata la fede nella comunità e il bisogno di trasmetterla a lei. Siamo parte di un tutto che conta più delle singole parti. E, al tempo stesso, ogni singolo elemento di questo tutto è prezioso e va protetto. Vaccinarsi, accogliendo il rischio implicito in questa scelta, è come prendersi per mano e fare cerchio attorno a chi, per un motivo o per l’altro, è più vulnerabile di noi. È così che, da sempre, l’umanità va avanti.