«Vaccinarsi, vaccinarsi, vaccinarsi». Così di recente ha ripetuto la Cancelliera tedesca, Angela Merkel, sottolineando l’esigenza di aderire alla campagna vaccinale, come del resto sta facendo il premier italiano Mario Draghi, che ha fissato l’obiettivo delle 500 mila dosi somministrate al giorno. Con l’arrivo del vaccino Johnson&Johnson aumentano i sieri a disposizione, dopo la sospensione temporanea di AstraZeneca, che invece ha appena rivisto l’efficacia delle proprie fiale. Uno studio americano di fase III, infatti, ha mostrato un’efficacia del vaccino del 79% nella prevenzione del Covid-19 sintomatico e del 100% nella prevenzione di malattie gravi e ricovero in ospedale, confermando una protezione anche negli over 65 all’80%.
Ma cosa si intende per efficacia? E soprattutto, cosa cambia una volta vaccinati? Si potrà tornare alla normalità o è necessario mantenere le norme di protezione, come mascherina e distanziamento?
Quanto sono efficaci i vaccini e contro cosa
La necessità di vaccinarsi è legata soprattutto all’esigenza di fermare la circolazione del virus, oltre a proteggere i soggetti più fragili, per i quali il Sars-Cov2 potrebbe essere anche letale. Gli studi hanno mostrato percentuali molto elevate di protezione dei vaccini finora autorizzati e in distribuzione, ma va chiarito che l’efficacia a cui si fa riferimento è quella nei confronti della malattia, mentre è ancora da accertare quanto siano in grado di impedire il contagio o la trasmissione del virus-
«Ci sono due aspetti da considerare, ovvero la probabilità di ammalarsi e quella di infettarsi, e magari poter trasmettere il virus, pur rimanendo asintomatici. Al momento disponiamo di dati solidi relativi alla malattia, quindi alla capacità del vaccino di proteggerci dai sintomi gravi del Covid. In pratica, una volta vaccinati, corriamo meno rischi di ammalarci in forme gravi e quindi di finire in ospedale o in terapia intensiva. Ciò che invece ancora dobbiamo capire bene è quanto la protezione dei vaccini di cui disponiamo sia efficace anche per l’infezione: non sappiamo ancora quanto i vaccinati possano reinfettarsi o trasmettere il virus ad altri, pur rimanendo asintomatici. Quello che abbiamo visto finora è che chi ha avuto il Covid o il vaccino difficilmente si reinfetta, ma servono ancora altri dati, statisticamente rilevanti» spiega Andrea Cossarizza, immunologo dell’Università di Modena e Reggio Emilia.
Quanto dura l’immunizzazione
Gli studi proseguono e, soprattutto, col passare del tempo è possibile verificare anche la durata della protezione. Se fino a qualche tempo fa si indicavano circa 5/6 mesi di copertura dopo la malattia, ora questo arco temporale si è allungato: «È appena stato pubblicato uno studio che mostra una protezione di 8 mesi. Chiaramente ciò è dovuto al fatto che è aumentato il tempo a partire da quando “conviviamo” con il virus e possiamo studiarne gli effetti. Come ripeto sempre, per sapere cosa accadrà tra un anno bisognerà aspettare dodici mesi. Le analisi continueranno e avremo nuovi dati, intanto vanno avanti anche le sperimentazioni e la ricerca» spiega Cossarizza.
Da vaccinati: con o senza mascherina?
A far discutere, intanto, sono le immagini circolate nel primo giorno di fine lockdown nel Regno Unito, quando non si è registrata neppure una vittima: con 34 milioni di vaccinati, gli inglesi sono tornati per strada, in palestra e in piscina, senza mascherine. Anche negli Usa, come riportato dai media internazionali, il Center for Diseases Control di Atlanta hanno affermato che le persone che hanno ricevuto due dosi di vaccino, dunque completamente immunizzate, potranno tornare a far visita ai parenti anche anziani e persino senza mascherina.
«Io non ci penso neanche, e non capisco come si possano avere certezze assolute in questo campo. È assolutamente importante mantenere le norme di protezione, come mascherina e distanziamento. Oltre alle incertezze sulla possibilità di trasmissione del virus anche da parte degli immunizzati, c’è il rischio delle varianti: i vaccini potrebbero rivelarsi inefficaci o poco efficaci nei confronti di quelle presenti o di nuove che si dovessero presentare – dice Cossarizza – Non solo: chi si infetta, pur non ammalandosi, potrebbe produrre varianti, quindi finché non avremo una percentuale di copertura soddisfacente, bisogna tenere alta l’attenzione. Questo non è catastrofismo, ma, in assenza di dati certi, solo buon senso e prudenza. Se tutti ne avessero, i colori virerebbero verso il bianco…».
A quando l’immunità di gregge?
Il commissario Ue al mercato interno e capo della task force sui vaccini, Thierry Breton, ha dichiarato che l’immunità di gregge dovrebbe essere ottenuta entro metà luglio. Ma perché questo accada occorre che i vaccini blocchino anche la trasmissione del virus. Secondo molti esperti e come confermato da un recente articolo su Nature, si dovrebbe arrivare al 70%, obiettivo che in Italia si vorrebbe raggiungere per la fine dell’estate.
«È la percentuale indicata come ottimale, che però non mi vede particolarmente entusiasta, perché penso che debba essere maggiore. Molto dipende dalla durata dell’immunizzazione, da quanto sarà robusta la protezione, dalla possibilità o meno di trasmissione del virus tra i vaccinati o dalle varianti, insieme ai comportamenti dei singoli soggetti e al rispetto alle norme di protezione, che comunque dovranno proseguire, e ovviamente dalla disponibilità dei vaccini» spiega l’esperto.
I vaccini e le varianti
Le varianti, dunque, sono una delle incognite: quanto sono efficaci i vaccini nei confronti delle varianti? «Per rispondere occorrerebbe una sfera di cristallo. Quello che oggi potremmo ipotizzare, ma solo ipotizzare, è che potrebbero servire nuove versioni dei vaccini che siano efficaci contro le varianti. I vaccini a RNA possono essere costruiti o modificati in tempi rapidi, anche in un mese, ma il vero problema poi diventerebbe produrre 7 miliardi di dosi (o 14, se serve il richiamo) per la popolazione mondiale» osserva Cossarizza – Adesso parliamo delle varianti inglese, sudafricana, brasiliana, ma non saranno le ultime perché le mutazioni si formano sempre quando c’è replicazione del virus: più questo circola, più si replica, più se ne formano. Si potrebbe ipotizzare che si arriverà a una variante molto performante, quella con un legame ottimale della proteina S del virus al recettore presente sulle nostre cellule. Forse si genererà una immunità più efficiente che protegga da tutte le varianti, ma non possiamo prevedere se e quando accadrà, anche perché la proteina S non è l’unica variabile da tenere in considerazione». «È per questo motivo che è necessario cercare di far circolare il meno possibile il virus, sia con i vaccini, sia con le norme di comportamento individuale, che non devono essere dimenticate neppure da immunizzati» aggiunge l’immunologo.
Oltre ai vaccini. I nuovi farmaci anti-Covid
La strada dei vaccini, dunque, è indispensabile, ma a che punto siamo con le terapie contro il Covid, che potrebbero ridurre le ospedalizzazioni? In Israele si sta sperimentando un farmaco, in forma spray, che cerca di evitare «la sovra-reazione del sistema immunitario». In Italia, invece, sono iniziate le cure in ospedale con gli anticorpi monoclonali: quanto sono utili? «Sul farmaco israeliano non riporrei grandi aspettative, non mi è sembrato così efficace, mentre i monoclonali possono essere utili nelle prime fasi della malattia per bloccare l’infezione in corso. Il problema è che di fronte a nuove varianti potrebbero diventare inefficaci, perché si basano sulla somministrazione di un solo, specifico, anticorpo, che potrebbe essere superato dalla mutazione. Per questo è comunque meglio vaccinarsi: i soggetti già infettati una prima volta o vaccinati, infatti, sono molto più protetti, perché hanno sviluppato non solo più tipi diversi di anticorpi, ma anche di linfociti T che servono a controllare le cellule infette, e che potrebbero diventare un nuovo strumento da usare per i vaccini» conclude Andrea Cossarizza.