I primi a decidere di pianificare una nuova campagna vaccinale per la somministrazione della terza dose di sieri anti-Covid sono gli inglesi, dove il governo e il servizio sanitario nazionale (Nhs) hanno annunciato che i richiami ulteriori inizieranno a settembre. A raccomandarlo sono gli esperti del Joint Committee on Vaccination and Immunization e l’obiettivo è rafforzare l’immunità, soprattutto di fronte alla crescita di contagi causati dalla variante Delta. La campagna dovrebbe coincidere con quella anti-influenzale, coinvolgendo per primi gli under 50 e i soggetti fragili, per concludersi poi entro l’inizio dell’inverno.
E in Italia? Qualcuno inizia a parlare di terza dose, ma a distanza di 12 mesi dalla prima. Sarà così? E con che vaccino? A rispondere è l’epidemiologo Paolo D’Ancona, ricercatore dell’Istituto Superiore di Sanità.
A cosa serve la terza dose di vaccino?
«Ci sono studi internazionali che mostrano una diminuzione della capacità di neutralizzare il virus da parte degli anticorpi, col passare del tempo. In particolare le ricerche indicherebbero un declino dopo 8/12 mesi, tale da richiedere una dose cosiddetta “booster”, che è in grado di risvegliare e potenziare la protezione immunologica» spiega D’Ancona.
Quindi non rimangono anticorpi di “lungo periodo”?
«Per capire l’utilità di una eventuale terza dose occorre partire da cosa accade nell’organismo quando entra in contatto con un nuovo agente infettivo. Da un lato avviene una risposta umorale, immediata, con la produzione di anticorpi; dall’altra si verifica una risposta cellulare, che include anche la produzione di cellule in grado, a loro volta, di creare ancora più anticorpi specifici per quel virus o microrganismo – spiega l’epidemiologo – A differenza dei primi anticorpi, che svaniscono nell’arco di qualche mese, le cellule della cosiddetta “memoria immunologica” persistono e, qualora si rincontrasse lo stesso virus o microrganismo, sono in grado di riprodurre anticorpi specifici. È per questo che per molte malattie è prevista più di una dose di vaccino: nel caso del tetano, ad esempio, perché il livello degli anticorpi col passare degli anni potrebbe non essere più sufficiente. Naturalmente dipende dal tipo di malattia: nel caso della meningite batterica, occorre una reazione immediata da parte dell’organismo perché quel batterio è potenzialmente letale in brevissimo tempo. Nel SarsCov2 si ritiene che sia più utile una risposta veloce, quindi si sta pensando a una terza dose booster, in grado di riattivare la produzione di anticorpi specifici a un livello ottimale per proteggerci».
La terza dose coprirebbe dalle varianti e dalla variante Delta?
«Dalle varianti esistenti al momento sì. Ci sono diversi articoli scientifici, ora in “pre print” quindi in attesa di pubblicazione, che indicano che effettivamente le due dosi di vaccino sono efficaci anche nei confronti della variante Delta, come già verificato per il ceppo originale o per la variante Alfa» spiega l’esperto.
La vaccinazione potrebbe avvenire insieme a quella annuale antinfluenzale?
«Nel Regno Unito si ipotizza di fare la terza somministrazione tra settembre e l’inizio dell’inverno, ma non è detto che siano in contemporanea. È più probabile che si lascino passare due settimane o un mese tra l’una e l’altra, sia per evitare che possano “disturbarsi” a vicenda, sia soprattutto perché in caso di eventi avversi non si riuscirebbe a capire se siano stati causati da una o dall’altra vaccinazione».
Chi ha ricevuto due dosi di AstraZeneca cosa dovrebbe fare?
«Molto dipenderà anche dai risultati dallo studio inglese Cov-Boost che sta reclutando 3.000 persone, avviato a maggio e tuttora in corso. Ad oggi possiamo pensare che l’obiettivo sia quello di diversificare, quindi di procedere una vaccinazione eterologa o mix vaccinale per avere maggiore flessibilità nella campagna vaccinale e una efficacia vaccinale al massimo livello» spiega il ricercatore dell’Istituto Superiore di Sanità.
L’efficacia della vaccinazione eterologa è confermata? È vero che è persino superiore alle due dosi di uno stesso vaccino?
«Sì, due studi internazionali, uno spagnolo e uno inglese, sebbene su un campione limitato, confermano una efficacia maggiore rispetto alla doppia somministrazione di uno stesso vaccino. Questo potrebbe essere dovuto al fatto che con i vaccini a vettore virale (come nel caso di AstraZeneca, ndr) l’efficacia della seconda dose potrebbe essere “disturbata” dalla reazione degli anticorpi contro il vettore virale stesso. Probabilmente è per questo che con AstraZeneca i risultati migliori si sono ottenuti allungando il tempo tra le somministrazioni, per renderlo più efficace ed evitare questa possibile reazione – chiarisce D’Ancona – Gli studi in corso nel Regno Unito potranno chiarire se sia così».
Con che vaccino si potrà fare il richiamo in caso di mix vaccinale? Col primo o con il secondo?
«Al momento è troppo presto per fare ipotesi» dice l’epidemiologo.
Cosa deve fare chi ha ricevuto una sola dose di AstraZeneca e ha deciso di aspettare a fare il richiamo?
«È capitato a molti che, in attesa di una circolare specifica, avendo ricevuto la prima dose di AstraZeneca – di cui nel frattempo erano state modificate le raccomandazioni, limitandole agli over 60 – abbiano deciso di attendere. Oggi, però, il ministero della Salute prevede l’eterologa e dunque le Regioni devono organizzarsi per offrire in modo da garantire il completamento del ciclo vaccinale» conferma D’Ancona.
Cosa si sa su eventuali effetti collaterali del mix vaccinale?
«Gli studi condotti finora indicano una maggiore risposta immunitaria a fronte di un limitato aumento di eventuali lievi disturbi, come potrebbero essere mal di testa, febbre o dolore alle ossa» dice l’esperto.
Servirà un’autorizzazione da parte dell’Ema, l’agenzia europea del farmaco, per una terza dose?
«È prevedibile perché quando si studia un vaccino si considerano soprattutto i parametri di sicurezza ed efficacia. Per autorizzare un eventuale ulteriore richiamo, è immaginabile che si voglia seguire un percorso controllato e assolutamente sicuro, che passi da trial molto severi e non si limiti agli studi di un ente terzo senza il rispetto degli standard autorizzativi. Non è detto che il Regno Unito, che non è più parte dell’UE, attenda l’Ema, ma gli Stati membri è plausibile che si affidino all’agenzia regolatoria o che comunque, pur usando i risultati dello studio britannico, richiedano l’estensione delle indicazioni di somministrazione» conclude Paolo D’Ancona.