È stata definita la settimana peggiore per Venezia dal 1872, da quando cioè sono iniziate le misurazioni delle maree. A sette giorni dal quel 12 novembre da incubo, in cui l’acqua alta ha raggiunto il record di 187 centimetri mettendo in ginocchio la città lagunare, le scuole hanno riaperto, i vaporetti hanno ripreso la navigazione, ma molte stazioni restano chiuse, così come sono inagibili numerose passerelle: per muoversi occorre dotarsi di stivaloni da pesca, anche perché la pioggia ha dato tregua di fatto un solo giorno. Il vento di scirocco continua a sferzare Venezia, anche se non più a 100 km orari, spingendo comunque le onde contro la banchina e contribuendo ad allagare molte calli e campielli.
Veneziani e veneziane tentano di tornare alla normalità, ma nei loro occhi si vede la paura di rivivere quei momenti: «È stato un incubo, sembrava non finisse mai, le sirene continuavano a suonare per avvertire di una nuova acqua alta, ogni 20/30 minuti. Ancora adesso le sento risuonare nella mente, come se mi fossi trovata in guerra, sotto i bombardamenti» ci racconta Angelina, 41 anni, che gestisce un minimarket nei pressi di Riva degli Schiavoni, tra piazza San Marco e i Giardini.
Angelina e l’incubo quotidiano
Nata in Olanda ma da 30 anni a Venezia, origini cinesi, un marito italiano e figli che come lei parlano veneziano, Angelina era in negozio da sola quando ha fatto irruzione l’acqua alta, nella settimana più critica della storia di Venezia: «Si è allagato tutto nonostante le barriere e nonostante io metta tutta la merce su bancali sollevati da terra di almeno 40/50 cm. Poi è saltata la luce ed ero sola, mi ha preso il panico» racconta la commerciante con lo smarrimento ancora negli occhi mentre il figlio piccolo le saltella intorno: «I figli mi distraggono e mi danno la forza di andare avanti, ma sto valutando se chiudere l’attività. Era già successo l’anno scorso, sempre a novembre, periodo di acqua alta. Ce l’aspettavamo, ma fino a 1 metro e 45. Io ho le protezioni fino a 1 e 67, invece è andata oltre di 20 cm. Ho cercato di mettere in salvo la merce, ma non c’è stato nulla da fare. Ora non mi fido più: abbiamo perso due frigoriferi e buttato via molti alimenti. Per ora ho riaperto il negozio, ma vendo solo generi a lunga conservazione, come biscotti e vino, quello che sono riuscita a salvare, anche perché le consegne per ora sono ferme. Ma è l’ansia il vero problema: convivere con la paura di rivivere le stesse emozioni negative».
«Mi dispiace pensare che se il Mose funzionasse forse non saremmo in questa situazione: in Olanda, il Paese da cui arrivo, il problema è stato risolto negli anni ’80 con un sistema di dighe, costato anche molto meno» conclude Angelina.
Alessandra, il bar e la voglia di rimboccarsi le maniche
È amareggiata anche Alessandra, 44 anni, madre di un bambino di 9 anni e una ragazza di 16, che insieme al marito gestisce un bar tabacchi di fronte alla fermata Arsenale, ancora transennata una settimana dopo l’acqua alta record: «Quando abbiamo restaurato, due anni fa, abbiamo fatto mettere le prese in alto, adottando tutti gli accorgimenti possibili, ma non è stato sufficiente. Fino a 1,70 cm saremmo stati salvi, ma l’acqua è andata oltre: ci entrava dalla saracinesca e risaliva dal pozzetto a terra. Abbiamo perso il frigo dei gelati, altri due per le bibite e il distributore delle sigarette. L’assicurazione non copre i danni da calamità» ci dice, mentre serve i caffè in bicchierini di carta e usando, suo malgrado, posate di plastica perché la lavastoviglie non funziona. Al bancone niente croissant, solo panini e focaccia che riescono a produrre con quel poco di alimenti di cui ci si può rifornire in questi giorni. Ma non perde il sorriso: «Cosa dovrei fare, piangermi addosso? Ci rimbocchiamo le maniche, per forza. Sabato, però, dopo quattro giorni a ripulire il locale e cercare di superare lo shock sono andata con mio figlio al cinema, per distrarre lui e me».
Barbara e gli “angeli del fango”
Scuole e università hanno riaperto, ma finché erano chiuse sono stati proprio gli studenti a trasformarsi in “angeli del fango”: «Vedere la devastazione è stato straziante. Non dimenticherò mai la notte del 12 novembre e quei momenti concitati. Io vivo al primo piano, ma insieme ai ragazzi li abbiamo aiutati a ripulire la casa, invasa da acqua e fango: hanno dovuto buttare materassi e mobili. Qui c’è voglia di aiutarsi, anche se i negozi sono ancora chiusi tranne un market. C’è una sola farmacia aperta nel quartiere e l’unico bancomat che funziona è a Canareggio, dall’altra parte della città: i vaporetti non circolano ancora in modo regolare, quindi bisogna andare a piedi, ma è lontano» ci spiega Barbara, 48 anni, originaria di Chioggia, ma cresciuta a Venezia, dove vive in via Garibaldi, trasformata in un fiume in piena durante la notte del 12 novembre.
Dorianna e il lento ritorno alla normalità
«Oggi proverò ad andare al Lido a fare la spesa, ormai ho finito le provviste in casa. Ho un po’ paura, il ricordo di quella notte è vivo, le sirene non finivano mai di suonare. Eravamo al buio e senza riscaldamento, perché l’acqua usciva anche dalle prese elettriche. Mio figlio lavora in un ristorante, ancora chiuso: stanno finendo di pulire e di fare gli inventari. Per riaprire occorrerà anche l’autorizzazione dell’ufficio d’igiene. D’altra parte, chi come mia mamma vive al primo piano, non ha potuto neppure aprire il rubinetto fino a poche ore fa, perché l’acqua non scendeva negli scarichi, anzi risaliva. Le lascio immaginare cosa è successo in bagno» racconta Dorianna, 58 anni, che vive a Venezia da quando ne aveva 6.
Venezia (e i turisti) guardano avanti
Girando per calli e campi sono pochi i turisti sotto un cielo grigio e una pioggia a tratti anche battente. Quei pochi si guardano attorno incuriositi e smarriti. Qualcuno si fa un selfie, come una ragazza asiatica sulle passerelle in piazza San Marco, che non sono state tolte dopo la tregua di lunedì. Poche ore di sole, poi l’acqua è tornata, insieme al vento: Venezia dovrà conviverci ancora a lungo.