Fa freddo a Milano e Giada indossa una grande sciarpa scura che si intona con i suoi capelli neri. La tocca più volte per scaldarsi e rifugiarsi dai pensieri mentre cammina per Casa Vidas, l’hospice in zona Bonola che dal 2006 accoglie i malati terminali che non possono essere seguiti a domicilio. Ci sono 20 stanze per i pazienti, tutto dentro è ordinato, pulitissimo. Si fatica a pensare che in questa camera, su questo letto ben rifatto, solo poche ore fa si spegneva per sempre una bimba di 2 anni. «Non ci si abitua mai ai piccoli» dice Giada sottovoce, scuotendo la testa. «La morte dei bambini resta un’ingiustizia profonda ma loro hanno una straordinaria capacità di sopportare e di supportare: sono guerrieri, grandi maestri». Fuori dalla finestra si intravede un palazzo in costruzione: sarà la nuova Casa sollievo bimbi, un edificio dedicato ai minori e alle loro famiglie.
«Quante persone avrò seguito fino a oggi? Un numero con almeno tre zeri»
Due terrazzi, una cupola a vetri da dove entra tanta luce, una grande biblioteca: l’hospice diretto da Giada Lonati è l’ultimo luogo d’arrivo di malati che per gli ospedali sono inguaribili «ma che per noi sono ancora curabili». Medico palliativista, 49 anni, ha dedicato la sua carriera ad alleviare le sofferenze dei pazienti: «Quanti? Penso proprio un numero a tre zeri. Quando entro nelle loro case e mi tolgo il camice ritrovo l’umanità della mia professione. Non mi pesa aver abbandonato la medicina oncologica». Insieme alla sua équipe la dottoressa Lonati accompagna gli inguaribili nell’ultimo tratto di esistenza, cercando di dare loro sollievo, dignità e libertà. Parole che dopo l’approvazione della legge sul biotestamento suonano ancora più importanti.
«Questa normativa è una conquista, eravamo uno dei pochi Paesi europei a non essersi ancora pronunciati sul fine vita» spiega Giada. «È una legge che si articola su 3 livelli: quello del consenso informato, perché solo conoscendo malattia e prospettive che ci attendono siamo liberi di fare delle scelte; quello delle Disposizioni anticipate di trattamento, ovvero tutti noi in condizioni di buona salute possiamo già fare una riflessione ed esprimere una volontà su delle future terapie; e poi c’è la pianificazione condivisa delle cure tra medico e paziente, in caso di prognosi infausta. A fronte di una patologia degenerativa posso decidere se vorrò la ventilazione assistita e la nutrizione artificiale. Anche cambiando idea e interrompendo il trattamento».
«Nelle terapie intensive tanti medici prendono decisioni al posto dei pazienti»
«Non ci saranno più casi Welby ed Englaro?» chiedo a Giada, mentre riflettiamo sulle lacrime dei familiari di alcuni malati coraggiosi sgorgate al momento del voto in Parlamento. Commozione che ha riportato in aula l’umanità troppo spesso offuscata da astratte posizioni politiche ma presentissima nella storia di uomini e donne sofferenti, come quelli raccontati dalla dottoressa nel suo libro L’ultima cosa bella (Rizzoli). «Oggi la medicina ha creato patologie che prima non esistevano, come lo stato vegetativo reso possibile dal progresso della rianimazione» spiega la direttrice Vidas. «Ha allungato la vita, ma non sempre la sua qualità. Questo deve indurci a fare scelte sempre più responsabili: nelle terapie intensive nel 60% dei casi la morte è conseguenza di una decisione del medico di sospendere o non intraprendere un trattamento, perché non è a conoscenza delle volontà del paziente. Così come è frequente che anziani ricoverati d’urgenza si ritrovino in ospedale legati al letto con un sondino per essere nutriti forzatamente: chi rispetta la loro dignità in questo modo?».
Chiedo a Giada se c’è una storia che, più di altre, l’ha colpita: nel suo libro racconta il fine vita di tante persone, da Laura, amica condannata da un tumore cerebrale che vede improvvisamente il vuoto intorno a sé («perché la malattia fa paura e ti lascia anche sola»), a Salima, immigrata che rifiuta di curarsi in Italia per andare a morire, senza medicine di sollievo, nel suo Paese. «Ho conosciuto tante persone, ma 2 settimane fa è scomparsa una signora 80enne che mi ha colpita nel profondo. Una donna sempre sorridente, amatissima, risolta. Durante una visita a casa mi ha detto, senza sconforto: “Dottoressa, mi spieghi cos’è la sedazione palliativa. Voglio venire in hospice perché so che lì qualcuno si occuperà di me”. Mi è rimasta la sensazione di grande compiutezza e accettazione. Ho pensato: “Ecco, vorrei diventare come lei”. Perché anche io, nonostante il lavoro che faccio, non credo di essere pronta a vivere bene la mia scomparsa o quella di chi amo. Certo, questo mestiere aiuta a fare della morte un esercizio di vita sano, a capire che si è fallibili, di passaggio. Ma in quel momento siamo soli davanti al nostro dolore e alle nostre paure».
«Quando l’orizzonte di vita si stringe, il superfluo perde significato»
Giada ha 2 figli, racconta che il maschio da piccolo pensava che la mamma fosse l’unico medico con una tasso d’insuccesso del 100%: tutti i pazienti non sopravvivevano. «È vero» dice con un sorriso. «Ma tengo a fare una distinzione: la sedazione profonda del medico palliativista non è eutanasia, differenti sono le intenzioni e i modi con cui vengono praticate. L’eutanasia, illegale in Italia, interrompe la vita all’improvviso, la sedazione riduce sofferenza e agonia di un’esistenza che si sta naturalmente spegnendo. Come medico, quando curo un paziente lavoro per salvaguardarlo, non per farlo morire. La legge sul biotestamento fa lo stesso: garantisce alle persone la possibilità di essere lasciate andare dignitosamente, non di essere fatte morire. Perché il fine vita non è solo dolorosa attesa, ma può essere anche un momento di pienezza e intensità in cui ognuno ridefinisce concetti come tempo e speranza. C’è chi si augura di arrivare ancora in bagno con le proprie forze e chi di vedere la figlia che si sposerà dopo pochi mesi. Quando l’orizzonte si stringe, il superfluo perde senso. E per molti di noi quegli ultimi istanti sono un modo di congedarsi con dignità e senza ulteriore sofferenza dalla vita».