Non riusciamo a provare empatia per Beppe Grillo. Anche se siamo genitori, non riusciamo proprio a metterci nei suoi panni e a tentare di immaginare come lui e la sua famiglia abbiano vissuto gli ultimi due anni, mentre si svolgevano le indagini su suo figlio, ora indagato per presunto stupro in concorso insieme ad altri tre giovani. Non riusciamo a farlo non tanto per i modi, violenti e scomposti, che d’istinto ci respingono, ma per le frasi che dice, aggravate dal fatto di essere un personaggio pubblico. E come noi, tanti, tantissimi italiani che – al di là delle strumentalizzazioni politiche – sui social hanno stigmatizzato il suo tentativo disperato e irrazionale di difendere il figlio.

Il video in difesa del figlio

Dal suo profilo Facebook irrompe gesticolando e riporta all’indietro la nostra coscienza civica e la nostra sensibilità. Chiede urlando: «Perché un gruppo di stupratori seriali compreso mio figlio non sono stati arrestati e sono stati lasciati liberi per due anni?» e si risponde da solo: «Perché vi siete resi conto che non è vero niente, perché una persona che viene stuprata al mattino e al pomeriggio va in kitesurf e fa la denuncia otto giorni dopo, vi è sembrato una cosa strana. Poi c’è un video – urla – in cui si vede che c’è un gruppo che ride e sono ragazzi di 19 anni in mutande che si stanno divertendo».

Nessuna vittima di violenza denuncia subito

Non una parola sulla ragazza, sui suoi genitori, che hanno risposto definendo quella di Grillo «una farsa ripugnante. Cercare di trascinare la vittima sul banco degli imputati, cercare di sminuire e ridicolizzare il dolore, la disperazione e l’angoscia della vittima e dei suoi cari sono strategie misere e già viste, che non hanno nemmeno il pregio dell’inedito». Quello della vittima che diventa colpevole infatti è un racconto già scritto e che abbiamo letto e ascoltato tutti, tante volte, nelle cronache e purtroppo nei processi. La ragazza sarebbe stata troppo lenta a reagire, dimostrando di voler incastrare a posteriori dei ragazzi che volevano solo divertirsi. Come se la denuncia fosse a scadenza, e soprattutto come se lo sapesse lui. Come se una donna dopo essere stata violentata corresse il giorno dopo al commissariato e al pronto soccorso. «Non mi è mai capitato in 40 anni di assistenza alle donne vittima di violenza, che qualcuna decidesse di sporgere denuncia subito dopo. A volte neanche mai, perché la violenza va elaborata, ti senti in colpa per esserti trovata lì, in quel momento, come se fosse una responsabilità tua. E soprattutto ti vergogni, hai paura di non esser creduta, che ti chiederanno com’eri vestita, avevi bevuto, perché sei andata lì» commenta Dalila Novelli, da 35 anni a fianco delle donne, presidente onorario di Assolei Donna Onlus. «Il fatto poi di aver bevuto si trasforma in un altro onere a carico della donna: per la mentalità comune, se beve l’uomo, è meno colpevole perché “perde il controllo”, mentre se beve la vittima, lo è di più, colpevole di essersi resa disponibile».

Parlare di “ragazzata” è un trucco che non funziona più

Ma il video di Grillo ci procura disagio anche perché sminuisce quanto è successo. Nel linguaggio giuridico si chiama eufemizzazione, prendere gli aspetti importanti e ridurli in briciole. Sbriciolare una vicenda squallida e ridurla a “ragazzata” quando di ragazzi non ce n’è neanche uno. «Qua sono tutti maggiorenni e perfettamente in grado di capire il peso dei loro atti. La banalizzazione è un comportamento gravissimo che oltre tutto si ritorce contro di lui» commenta l’avvocata Claudia Rebellino Becce, impegnata nella difesa di tante donne. Tant’è che la legale che difende la ragazza, Giulia Buongiorno, porterà il video in udienza, a dimostrazione di un pensiero comune che colpevolizza – ancora oggi – le donne. Quel pensiero comune che oggi sta cambiando ma su cui punta ancora Grillo, lui che ha costruito il suo successo politico parlando “alla pancia” delle persone e che ancora ci dice che il consenso femminile ai rapporti sessuali è implicito se non c’è un disaccordo. Insomma, la “pancia” di Grillo ci parla e ci dice che se una donna non dice no, è già un sì. E non importa se era impedita da alcol o droghe: se le assume, è perché lo voleva.

Per questo non riusciamo a metterci nei panni di un padre disperato. Perché quello che è successo, o comunque il modo in cui è venuto fuori a causa del suo intervento così scomposto e violento, esige che usiamo la testa. E le sue frasi – che parlano alla presunta “pancia” – ci colpiscono più della sua disperazione, pur comprensibile, di padre.